Hic sunt leones

La sfida della pace in Africa
Diplomazia preventiva
e multilateralismo

Un membro della missione Onu nella Repubblica Democratica del Congo parla con dei bambini a Pinga (UN Photo)
12 marzo 2021

Spesso si sente parlare delle crisi armate che attanagliano il continente africano. Ad esempio, la recente uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo hanno portato alla ribalta la situazione di aperta conflittualità in cui versa il settore orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). La valutazione generale che solitamente viene data dagli analisti è che si tratta di scenari determinati da inciampi nei percorsi di transizione verso la democrazia, la partecipazione, lo sviluppo e soprattutto per le asperità determinate dal business internazionale delle immense ricchezze naturali di cui dispone il continente. I rimedi, da qualunque parte provengano, dovrebbero essere attenti anzitutto a questa fenomenologia.

Troppo spesso, invece, nelle iniziative delle potenze che agiscono in nome della cosiddetta comunità internazionale — in cui l’Africa, politicamente parlando, sembra essere considerata più un oggetto che un vero e proprio soggetto — prevalgono le cosiddette ragioni di «sicurezza». Per cui, molto spesso, il tema del jihadismo, che secondo alcuni potrebbe trasformare il continente in una sorta di Africanistan, come anche quello della mobilità umana verso l’Europa, vengono considerati in modo a sé stante rispetto alla complessità delle questioni ancora aperte che devono essere necessariamente affrontate dai governi locali. Sarebbe invece opportuno affermare un indirizzo olistico che considerasse, senza retro-pensieri, le istanze di cambiamento che si levano dalle varie componenti della società civile africana. Si avverte infatti l’esigenza di un riposizionamento della diplomazia internazionale che tenga conto della costante e progressiva modificazione dello scacchiere geopolitico africano a seguito dei processi legati alla globalizzazione.

Il modello coloniale e quello postcoloniale, alla prova dei fatti, non rappresentano più un paradigma di riferimento in Africa per il controllo delle istituzioni degli aiuti e neppure degli investimenti. Con il risultato che i tradizionali partner dei Paesi africani (le ex potenze coloniali) devono di fatto misurarsi con le strategie a basso indice di «condizionalità» delle potenze emergenti come il Brasile, la Cina, l’India, la Turchia e la stessa Russia che sta riproponendosi in Africa dopo il ritiro imposto, circa trent’anni fa, dal collasso dell’Unione sovietica.

È proprio in questo perimetro che le Nazioni Unite, come organismo dei popoli, sono chiamate a svolgere un ruolo indispensabile. A questo proposito è bene rammentare quanto avvenne all’inizio degli anni Sessanta con l’avvento della stagione delle indipendenze africane. Allora l’Onu, istituita come organizzazione dopo la seconda guerra mondiale con l’obiettivo di prevenire futuri conflitti, sostituendo l’inefficace Società delle Nazioni, giocò un ruolo politicamente rilevante.

In particolare, il riconoscimento del principio dell’autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, conferì legittimità internazionale alla volontà di emancipazione dei popoli africani e nel continente ebbe un felice riscontro. Non solo: il diritto internazionale mise finalmente fuori legge la guerra, in particolare grazie all’articolo 2 § 4, della Carta, dichiarando che gli Stati membri rinunciano alla guerra per risolvere i loro conflitti. In questa prospettiva le Nazioni Unite hanno rappresentato e tuttora rappresentano un ruolo centrale e insostituibile nella edificazione di proficue e necessarie relazioni internazionali — in questa fattispecie nel continente africano — come presidio di legittimità internazionale e foro insostituibile e indispensabile di negoziazione a livello planetario sui temi dello sviluppo, della pace e della sicurezza.

Occorre comunque prendere atto che la prima performance dei caschi blu nell’ex Congo Belga, sessant’anni fa, non si rivelò un successo a seguito di una serie di eventi: la secessione del Katanga (ricca regione mineraria); l’uccisione dell’allora primo ministro Patrice Lumumba; il misterioso incidente mortale in cui perse la vita l’allora segretario generale dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjöld; l’uccisione degli aviatori italiani che operavano per l’Onu a Kindu; per non parlare delle pesanti interferenze di formazioni armate composte da mercenari stranieri.

Da allora sono seguite numerose missioni di peacekeeping in Africa: dalla Liberia, alla Sierra Leone o alla Costa d’Avorio con risultati a volte controversi. Attualmente, stando al sito istituzionale delle missioni di pace Onu (www.unmissions.org), i contingenti dei caschi blu dislocati in Africa sono in Sudan ad Abyei (Unisfa), nella Repubblica Centrafricana (Minusca), nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco), nel Mali (Minusma), in Somalia (Unsos), nel Sud Sudan (Unmiss) e nel Sahara occidentale (Minurso).

Purtroppo, come rilevano due studiosi sudafricani esperti in relazioni internazionali, Malte Brosig e Norman Sempijja, gli obiettivi ambiziosi per garantire il mantenimento della pace attraverso le missioni dei caschi blu in Africa non sono stati in gran parte raggiunti. «Sebbene siano rilevabili effetti positivi sulla sicurezza nazionale e sulla partecipazione politica, in altri ambiti come la sicurezza personale, lo sviluppo umano o la gestione pubblica l’impatto è risultato essere minimo o inesistente».

A pesare negativamente su queste missioni sono una serie di fattori riscontrati da inchieste condotte sia all’interno delle Nazioni Unite come anche da organizzazioni indipendenti. Il primo tra questi fattori è la mancanza di disciplina nelle truppe e il fatto che i contingenti a volte siano composti da militari provenienti da Paesi in cui gli standard di preparazione non sono adeguati alle crisi in atto in Africa. A ciò si aggiunga il fatto che non poche volte sono stati riscontrati episodi di violenza sessuale nei confronti di donne e minori.

Come rileva l’africanista Rocco Bellantone, «il problema è che a episodi del genere, frequenti praticamente in ogni Paese in cui le Nazioni Unite abbiano messo piede in Africa, non seguono punizioni adeguate in quasi tutti i casi. Il giudizio sulla condotta dei soldati impegnati in missioni di pace Onu spetta infatti al Paese a cui essi appartengono. In molti casi capita che gli Stati coinvolti evitino di condurre in maniera decisa inchieste di questo genere per evitare di subire dei ritorni di immagine negativi». Secondo Gustavo de Carvalho, ricercatore dell’Iss Africa (Institute for Security Studies), per ottenere la fiducia delle popolazioni locali dove operano i caschi blu, l’Onu dovrebbe anzitutto imporre a ogni Stato membro il rispetto di standard di trasparenza nella selezione delle unità da inviare in missione, attraverso una serie di ispezioni che consentano di verificarne l’idoneità al compito assegnato. In secondo luogo, l’Onu dovrebbe mostrare maggiore fermezza verso quei governi che non favoriscono o addirittura ostacolano lo sviluppo di processi politici democratici.

Se le Nazioni Unite si mostrano deboli in tal senso, è inevitabile che crisi politiche sfocino in conflitti tra fazioni opposte. Occorre anche osservare che, secondo alcuni studi svolti in Paesi dove le missioni di pace Onu si sono concluse in Africa, al termine dei conflitti sono state prodotte comunque migliori istituzioni postbelliche e sono aumentate le attività della società civile. Rimane il fatto che vi sono dei contesti come l’ex Zaire dove le critiche sono molto pungenti. Ad esempio Jean-Léonard Touadi, presidente del Centro relazioni con l’Africa della Società Geografica Italiana (Crasgi), «l’Onu sta consumando nella Repubblica Democratica del Congo e altrove quel residuo di credibilità che ancora rimane».

Una cosa è certa: le forze di peacekeeping non possono essere considerate come risolutive nelle aree di crisi. Riconosciuto il mantenimento della pace come valore universale ed essenziale per la sopravvivenza della comunità dei popoli, ne consegue l’esistenza di una diplomazia preventiva in virtù della particolare natura del bene che è chiamata a promuovere. In Africa se ne avverte sempre più il bisogno per scongiurare quei disastri bellici che in questi anni sono costati la vita a un numero indicibile di civili nell’Africa Sub-sahariana.

Lo sfondo deve essere, comunque, chiaro: quello del multilateralismo che, come ha indicato pertinentemente monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati, deve essere «espressione di un rinnovato senso di responsabilità globale, solidarietà fondata sulla giustizia e sul raggiungimento della pace e dell’unità all’interno della famiglia umana, che è il piano di Dio per il mondo».

di Giulio Albanese