Il viaggio papale in Iraq

Abramo ma anche Sara

Icona raffigurante la visita degli angeli ad Abramo e Sara
12 marzo 2021

Partire da Abramo. Per tornare all’Origine. Per dare spessore teologico ad una geopolitica dello Spirito. Efficace nelle sue conseguenze diplomatiche e pratiche.

Il richiamo ad Abramo era già avvenuto nel Novecento, quando il precipitare degli eventi sembrava non offrire più scampo all’umanità. Alla fine degli anni Trenta il richiamo alla comune radice abramitica aveva significato un appello fattivo, non retorico e non rituale, alla fratellanza delle religioni contro il disastro dei totalitarismi. La cui “religione” era fondata sul razzismo, il nazionalismo e l’antisemitismo.

All’indomani della promulgazione delle leggi razziali in Italia, Pio xi pronuncia il 6 settembre 1938 il suo discorso più chiaro e netto contro l’antisemitismo, il più profondo ed efficace proprio perché sgorga da queste radici comuni, e lo fa a commento di alcuni versetti del Canone sul sacrificio di Abele, di Abramo e di Melchisedech. E che su indicazione dello stesso Pontefice fu trascritto fedelmente dal presidente della radio cattolica belga, monsignor Picard.

«A questo punto il Papa non riuscì più a trattenere la sua emozione... Ed è piangendo che egli citò i passi di San Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo: la promessa è stata fatta ad Abramo il nostro patriarca, il nostro avo e alla sua discendenza... La promessa si realizza in Cristo e con il Cristo in noi che siamo della discendenza spirituale di Abramo... l’antisemitismo non è compatibile... è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare... Non è lecito per i cristiani prendere parte all’antisemitismo.

«Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto di difendersi, di prendere le misure che lo proteggano da ciò che minaccia i suoi interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile.

«Noi siamo spiritualmente dei semiti».

La natura spirituale, che pone l’accento sulla comune origine semitica tanto da affermare che “spiritualmente siamo tutti semiti” non attenua ma anzi rafforza la condanna e suona anche come una sorta di “autocritica” nei confronti di quell’antigiudaismo che, in buona parte, aveva ispirato l’antisemitismo e le conseguenti persecuzioni degli ebrei.

Allora gli organi di stampa italiani, anche quelli cattolici, si astennero dal citare questi brani. «A me — ricorda Dossetti — pervennero solo per rimbalzo dalla Francia, quasi contemporaneamente allo scritto di Maritain appunto su “L’impossibile antisemitismo”».

Oggi quel potente “spiritualmente siamo tutti semiti” si allarga anche agli appartenenti all’Islam, quello spirituale che in nome del Dio comune alle tre religioni abramitiche deve “fare pace”.

Un cristianesimo che nella sua espressione cattolica, minoritaria nel mondo, letteralmente massacrata in quelle terre che ne avevano visto la sua origine, ritrova così la sua vera arma vincente: l’Universalità, quanto di meno separativo, identitario e rivendicativo ci sia.

Come aveva fatto Benedetto xv di fronte al dispiegarsi dei bellicosi nazionalismi, all’inizio del secolo scorso. Nazionalismi a cui si piegavano gli stessi cattolicesimi nazionali, l’un contro l’altro armati che, per la prima volta, si identificavano di più con le “ragioni irragionevoli” delle loro nazioni di appartenenza che non con l’universalismo della loro fede. E che finirono per sprofondare nella Prima guerra mondiale e non ascoltare l’appello del loro Pontefice contro “l’inutile strage”.

La forza di questo universalismo espresso in Iraq diventa così anche un potente messaggio geopolitico, quello di creare un ponte tra le divisioni del mondo islamico, mettendosi nella faglia tra sciiti e sunniti. In una continuità non solo spirituale ma anche geopolitica con le ragioni di Giovanni Paolo ii che tanto si spese per evitare la guerra in Iraq, per le conseguenze devastanti che avrebbe lasciato in quelle terre. E di cui si misurano gli effetti nel tempo.

A rileggere ora, dopo questo viaggio, il documento comune sottoscritto da Bergoglio insieme al Grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, ad Abu Dabi si capiscono molte cose solo apparentemente di contorno come quando si auspica che l’Occidente impari dall’Oriente l’idea di unità.

E così, da una posizione minoritaria, nei numeri, il Papa dei cattolici, martiri e perseguitati, trova la forza morale, spirituale e simbolica di non chiedere solo la difesa dei loro diritti, la sacrosanta protezione per i propri figli, ma di farlo anche per tutte le altre minoranze religiose, in quanto fratelli e dunque in quanto uomini e donne, i cui diritti le tre “religioni” devono onorare, in nome dell’unico, comune Dio.

Il diritto alla dignità in quanto essere umano fondato su questa comune discendenza consente di trovare il cuore teologico, culturale e politico della enciclica Fratelli tutti che è lo spartito musicale di tutto il viaggio in Iraq.

Dalle radici teologiche di quella enciclica scaturisce, secondo un paradosso solo apparente, anche una sorta di riconciliazione più matura con lo stesso illuminismo occidentale. La piena accettazione della coppia libertà e uguaglianza, proprio perché compiutamente assunte, consente di affermare con più forza e credibilità la più negletta, misconosciuta e trascurata fraternità.

E per concludere da dove siamo partiti, e cioè dall’importanza di Abramo nei momenti topici dei conflitti novecenteschi per la difesa dei deboli, vediamo che c’è qui una “mancanza”. Mi riferisco a Sara, la moglie di Abramo, una figura centrale, nella sua penombra, modernissima e potente da diverse angolature come molto bene emerge da un ritratto di Laura Invernizzi nell’ultimo numero del mensile de «L’Osservatore Romano», «Donne, chiesa, mondo».

Sara viene ricordata da Bergoglio, quale esempio di come Dio si serva delle “mancanze” per esprimere la sua potenza e la protezione dei suoi figli. Quella discendenza, numerosa come le stelle del cielo, che avverrà grazie a Sara, la moglie sterile e “trascurata” dallo stesso Abramo.

di Emma Fattorini