Lo scambio epistolare fra don Mazzolari e don Astori

Ci vorrebbe un amico

sinistra, don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo. A destra, Guido Astori, conosciuto come “l’alpino di Dio”
11 marzo 2021

Il carteggio tra don Primo Mazzolari e don Guido Astori, pubblicato da EDB a cura diBruno Bignami e Umberto Zanaboni con il titolo Ho bisogno di amicizia, lettere 1908-1959 (pagine 344, euro 28) dovrebbe essere utilizzato come libro di testo. Senz’altro per gli esami di storia contemporanea all’università, ma soprattutto nell’ultimo anno di liceo. Sarebbe un’ottima occasione per abbandonare ogni approccio nozionistico e ribaltare i ruoli: quando si affronta la storia dovrebbero essere gli studenti a fare le domande, non gli insegnanti, che sono lì per aiutarli a trovare le proprie risposte.

Le lettere che i due amici sacerdoti si scambiano per più di un cinquantennio sollecitano in modo discreto, quotidiano, ma univoco e senza incertezze, interrogativi riguardo a tutte le questioni che hanno contrassegnato la prima metà del secolo scorso, dalle guerre mondiali all’avvento al potere dei regimi assolutisti.

Sia Mazzolari che Astori partecipano alla guerra a fianco dei soldati. Il secondo è fatto prigioniero e trascorre più di un anno in un campo di concentramento austriaco. Don Primo inizia il servizio militare nelle retrovie, in un ospedale, poi viene trasferito sul fronte francese, a seguito della creazione di quel sistema di sostegni reciproci organizzato dagli alleati che portò reparti italiani a combattere sul fronte del Reno. Ma quando la guerra finisce, prima che arrivi il congedo passa più tempo del previsto, e di quanto si creda. Ancora nel 1920 don Mazzolari è cappellano presso contingenti dell’esercito italiano inviati a occupare le zone di confine tra la ridimensionata Germania e la rinascente Polonia, nelle quali la Conferenza di Parigi ha stabilito si debbano svolgere plebisciti per riconoscere la nazionalità della regione.

Nelle lettere che arrivano dalla Slesia posta sotto il controllo di svogliati e violenti soldati francesi e più permissivi ma altrettanto demotivati italiani si leggono parole durissime. Nell’umiliazione inflitta ai tedeschi don Primo individua i segnali di quel desiderio di prossima rivincita della quale già essi «parlano senza reticenze».

La condanna della politica francese, e in genere degli alleati, nella costruzione dell’Europa del dopoguerra è assoluta: «Non bastasse l’insania di un trattato che nessuno vuole, si aggiunge una politica qui e altrove che invelenisce le piaghe». Considerazioni analoghe a quelle espresse negli stessi giorni dall’economista inglese John Maynard Keynes, anche lui inascoltato nella furia della vendetta.

Le lettere che i due sacerdoti si scambiano sono spesso frettolose e il carteggio è di necessità lacunoso, ma è proprio dalla frammentarietà della comunicazione che emergono la consapevolezza dei tempi e l’urgenza dei problemi. Nella prima metà del secolo scorso la bassa padana non rappresenta il nord est ricco e produttivo dell’Italia di oggi, è ancora una regione povera, che vive in un’economia di poco superiore alla sussistenza: compito dei parroci è anche soccorrere i fedeli più bisognosi, in un contesto che l’avvento del fascismo rende ostile, dato che don Mazzolari non nasconde la propria posizione contraria a un regime del quale riconosce fin dall’inizio i tratti repressivi.

Don Primo diffida dei Patti Lateranensi, che le autorità locali non esitano a interpretare come un’autorizzazione all’ingerenza nell’attività della parrocchia. In seguito, in una lettera datata 22 agosto 1938, dopo aver accennato alla diffusione del tifo fra i parrocchiani si riferisce in modo diretto alla legislazione razzista di recente emanazione con poche frasi secche. Scrive che la campagna contro gli ebrei «continua in modo indegno e rivoltante. In paese ne ho ancora una decina: sono spaventati».

La guerra è ancora lontana e l’Italia fascista si allinea alle peggiori politiche messe in atto dalla Germania nazista: si corre verso il baratro, materiale e morale. Verso la fine della guerra, durante il periodo della Repubblica di Salò, don Mazzolari è costretto a lasciare Bozzolo e a passare in una condizione prossima alla clandestinità. Attivisti fascisti erano arrivati a esplodere colpi di pistola intimidatori contro la finestra della sua camera.

Numerose lettere illuminano in merito alle tensioni che percorrono la Chiesa nel Novecento preconciliare, in essa si agitano questioni teologiche, pratiche, organizzative, di tradizione e di modalità di confronto. Don Mazzolari sviluppa una pastorale a largo raggio, costruisce una rete di rapporti, scrive libri, dà vita a una rivista. La sua attività incontra approvazione e nello stesso tempo suscita gelosie e aperte contestazioni, queste ultime danno luogo a una serie di interventi della gerarchia destinati a sfociare nel ritiro dal mercato di molti dei suoi scritti e nella chiusura della rivista dopo poco più di un anno dall’inizio delle pubblicazioni.

Le lettere private costituiscono per gli storici una tra le fonti migliori, chi scrive a un amico e non per un pubblico allargato tende a esprimersi con franchezza e libertà. Perciò Ho bisogno di amicizia, mentre suscita nei nostri ipotetici studenti domande relative ai grandi accadimenti occorsi tra il 1910 e il 1960, fornisce loro uno spaccato della società italiana, dai problemi relativi alla quotidianità alla profonda spiritualità che anima sacerdoti e fedeli in un contesto distante appena pochi decenni che il violento sviluppo economico del dopoguerra ha reso lontano dalla sensibilità odierna. Davvero un bel libro di storia, politica e sociale, culturale e religiosa.

di Sergio Valzania