«La terra di Caino» di Alessandro Rivali

Ovunque sia l’umano

Tintoretto, «Caino uccide Abele» (1550)
10 marzo 2021

Per la tribù della poesia italiana contemporanea il nome di Alessandro Rivali non suona certo come una novità. Nato nel 1977 a Genova, ma milanese oramai d’adozione, come tanti poeti che hanno orbitato attorno alla grande capitale del nord sino a diventarne amanti, Rivali è una delle voci nate nei Settanta che ha da subito attirato l’attenzione.

I suoi libri precedenti, La riviera del Sangue, Mimesis, 2005, e La caduta di Bisanzio (Jaca Book, 2010), indicano un percorso luminoso in termini di autenticità e forza, di tenuta della lingua, sempre tesa a una cifra lirica come poche altre ai giorni nostri.

Va segnalato, non di meno, il suo lavoro editoriale. Rivali appartiene a tutti gli effetti a quella categoria di autori che serve la letteratura non solo con la sua produzione artistica, ma facendosi anche promotore e scout. In una realtà di quella media editoria che ha fatto, e fa tuttora, da paladina della cultura italiana, le Edizioni Ares, sotto l’ala di Cesare Cavalleri, intellettuale, poeta e critico che tanto ha fatto per il nostro Paese.

Ma Rivali rimane in primis un poeta. Tutte le altre attività sono vene che si dipanano dallo sguardo poetante.

Ogni artista ha un momento apicale. L’acme coincide spesso con l’imbocco del grande curvone che porta alla maturità anagrafica. Il viaggio al suo giro di boa.

È di questi giorni la pubblicazione di La terra di Caino (Milano, Mondadori, 2021, pagine 152, euro 20).

Un libro che sarà per questo autore la pietra angolare di tutto quello che lo ha preceduto e gli succederà.

Rivali, da sempre, coglie nel presente ordinario, nella vita feriale, i momenti di svelamento e congiunzione con gli archetipi della storia umana. Con il mito. La Storia che naturalmente si mischia al sacro. Che ne è il trionfo anche quando sprofonda nella terra del peccato e del dolore.

I libri sacri, in questo senso, dicono tutto il dicibile, sono la stella cardinale a cui tornare, perché tutto quello che ancora deve accadere è già accaduto, è già scritto.

Caino.

Soltanto a pronunciarlo, questo nome fa tremare la terra.

Caino. Il figlio dell’uomo che macchiò per primo la terra con il sangue di un fratello. Abele, la pecora bianca. Caino l’omicida, il fratricida.

«Ora sii maledetto…quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Recita la Genesi.

Caino diventa l’emblema del male e del peccato, e, di contro, l’affermazione più chiara e nuda dell’uomo e del suo peccare.

Rivali mette in scena un Caino capace di cavalcare i tempi e le storie. Un viaggiatore che frammento dopo frammento dipana una drammaturgia di versi e carne, attraverso vicende e opere d’arte. Perché Caino è ovunque, ovunque sia l’umano.

Ecco, dunque, messa in scena la violenza del mondo, dal primo gesto «che spezzò la schiena di Abele», attraverso il Gilgamesh, passando per Gerico e i Roghi del Giappone. Poi dentro l’insegnamento di un uomo chiuso in una gabbia pisana, Ezra Pound, il poeta più Caino di tutti, per continuare nella pelle dei padri, dentro sorrisi stranieri, dentro «occhi che indagano il futuro» sino a un approdo possibile, nell’infanzia di Genova, Staglieno, dove i crocifissi sono senza legni.

Al centro c’è sempre lui, Caino: «invaso di nostalgia, / ogni notte ascoltava con fame / i racconti del paradiso perduto».

Rivali ci dona un testo di poesia che resterà negli anni, che fa della materia del sempre materia dei nostri giorni. Come si addice alla poesia vera.

di Daniele Mencarelli