L’11 marzo di novant’anni fa moriva il regista Friedrich Wilhelm Murnau

Il poeta
delle piccole cose

Una scena tratta dal film «Faust» (1926)
10 marzo 2021

L’11 marzo di novant’anni fa un incidente stradale avvenuto a Santa Barbara, in California, strappava precocemente al mondo del cinema uno dei suoi più grandi talenti. Friedrich Wilhelm Murnau, che era nato a Bielefeld, in Germania, nel 1888, aveva esordito nel segno di una solida ma complessivamente anonima professionalità, che mai poteva lasciare immaginare i clamorosi sviluppi futuri.

I primi film di cui è rimasta traccia sono tre melodrammi vicini al feuilleton, fra cui spicca Phantom (1922), quasi un prototipo di Vertigo, e un mystery poco avvincente, Schloss Vogelod (1921). Al di là di qualche improvvisa impennata onirica, e della sporadica comparsa del tipico motivo del doppio, Murnau si dimostra piuttosto indifferente alla coeva corrente espressionista. La sua attenzione sembra rivolta piuttosto a Griffith e soprattutto al cinema scandinavo, da cui mutua il naturalismo della messa in scena e il tema ricorrente della forza degli elementi, capaci di entrare in simbiosi con l’animo dei personaggi. Sul piano registico, unici motivi di vero interesse di queste prime pellicole sono una spiccata predisposizione per la profondità di campo e un montaggio dalle geometrie perfette, una levigatezza tecnica che a Hollywood si raggiungerà pienamente solo nel decennio successivo.

Il film della fama arriva da un adattamento del Dracula di Stoker, che per motivi di copyright diventa Nosferatu (1922). Il film ha momenti memorabili grazie allo splendido make-up del vampiro e a location dalle spigolosità espressioniste, ancorché realmente esistenti. Tuttavia, il contrasto fra l’armamentario iconografico gotico e il contesto di nuovo naturalista, così come scene di raccordo piuttosto insipide, lo distanziano decisamente dai capolavori che verranno. Nel campo del cinema horror, in ogni caso, rimane una lezione di orrore suggerito che va già oltre la facile iconografia del successivo Dracula della Universal per fare direttamente da modello al più raffinato ciclo horror della RKO degli anni Quaranta.

Dopo una sorprendente commedia avventurosa che sembra quasi anticipare i gialli-rosa anni Sessanta di Stanley Donen, Die finanzen des grossherzogs (1924), la svolta arriva con l’approdo alle prestigiose produzioni UFA, una cesura che può essere paragonata all’arrivo di Hitchcock oltreoceano. Il cinema di Murnau si trasforma improvvisamente da artigianato solido ma statico ad arte incredibilmente dinamica ed espressiva. Il primo risultato di tale metamorfosi è Der letzte mann (1924), storia di un portiere d’albergo trattato come un’autorità nell’umile quartiere dove vive grazie al fascino emanato dalla sua pomposa divisa. Il giorno in cui verrà declassato dall’ingresso ai bagni dell’hotel, perdendo il diritto al prezioso abito, perderà anche la stima di chi lo conosce. Il film, vagamente ispirato a Il cappotto di Gogol’, sarebbe un capolavoro già per la poesia del quotidiano con cui Murnau descrive impietosamente i rapporti interpersonali. Siamo quindi nel solco del kammerspiel, genere di dramma intimista e impregnato di pessimismo sociale che soppianterà l’espressionismo sulla spinta della corrente filosofica della Nuova oggettività. Ma a rendere il film rivoluzionario sono mezzi espressivi del tutto inediti. Il grande operatore Karl Freund sperimenta una sorta di steadycam ante litteram legando una cinepresa molto leggera al proprio corpo, permettendo così allo sguardo una mobilità mai raggiunta prima. Murnau dal canto suo non abusa di questa tecnica, mettendola al servizio di precisi momenti espressivi. Ne deriva una vera e propria nuova grammatica dei movimenti di cinepresa che cambierà per sempre il cinema, non solo tecnicamente ma anche concettualmente. È qui, infatti, che comincia in pratica a imporsi l’idea di specifico cinematografico, ovvero l’autonomia del cinema rispetto alle altre arti, che finora lo avevano pesantemente condizionato. Non a caso Murnau avrà fino all’ultimo resistenze ad adottare il sonoro.

Il secondo capolavoro è Faust (1926), sinfonia visiva sul contrasto fra Bene e Male, luce e tenebra. Il regista si serve del famoso mito attingendo a Goethe e a Marlowe, ma puntando in realtà a omaggiare l’ormai tramontato Espressionismo. Una versione aggiornata del personaggio di Faust era stato infatti l’eponimo studente di Der student von Prag, fondamentale prodromo della stagione appena conclusa. Scenografie contorte e una fotografia modellata magistralmente sulle ombre vengono impreziosite dalla ormai scatenata cinepresa di Murnau. Ipertrofico e discontinuo, almeno nella prima metà rappresenta la vetta del cinema visionario di ogni tempo.

Hollywood è la successiva sfida per Murnau, che al suo esordio americano non si fa trovare impreparato. Con Sunrise (1927) lo sperimentalismo visivo del regista si sposa con la forza narrativa del cinema hollywoodiano per un risultato di raro equilibrio. Un uomo di campagna, sobillato dall’amante di città, è tentato di uccidere la propria moglie. I coniugi finiranno invece per passare una giornata proprio nella vicina metropoli, dove, fra una piccola avventura e l’altra, scopriranno di essere ancora innamorati. In un’ora e mezzo Murnau condensa il palpitare della vita. Quella placida e idilliaca della campagna e quella febbrile e brulicante della città. Il tema della paura per la vita di strada, tipico del cinema della Repubblica di Weimar, confluisce con naturalezza in quelli dell’attrazione-repulsione per la modernità e della dicotomia vita rurale-vita cittadina che cominciano già a serpeggiare nel cinema americano, e che troveranno ampio sviluppo dopo l’inizio della Grande depressione. Murnau si conferma tanto un visionario, quanto un poeta delle piccole cose. Connubio più unico che raro nella storia del cinema.

Tematiche simili si ritrovano nel successivo City girl (1930), in cui torna a farsi sentire il modello del cinema scandinavo. Non a caso il soggetto è simile al film di Sjöström The wind, peraltro girato sempre a Hollywood, e il senso imminente di tragedia cresce assieme alla minaccia di una tempesta. Lo stile è sempre più asciutto, ma al contempo incisivo, e la vita nei campi è descritta con panica potenza. Days of Heaven di Malick nasce anche da qui.

L’ultimo film prima della scomparsa, Tabu (1931), Murnau lo dirige con la collaborazione del grande documentarista statunitense Flaherty. Un sodalizio emblematico di uno stile che torna al naturalismo. È la struggente storia di una fuga d’amore nel dionisiaco sfondo di Bora Bora. Attraverso il terzomondismo — che plasma anche un’estetica particolarmente scabra — Murnau raggiunge quel mondo del mito a cui i suoi film avevano sempre teso.

di Emilio Ranzato