Il fondatore dei Fatebenefratelli

Guarire con la sana
“follia” di Dio

Manuel Gómez-Moreno González, «San Giovanni di Dio salva i malati dall’incendio dell’Hospital Real» (1880)
10 marzo 2021

Le vie della santità sono lunghi fiumi. Scorrono nel tempo passato fino a giungere al nostro presente. Roma, anno 2021. Un palazzo, grande, si erge proprio vicino a un fiume, anzi in mezzo a un fiume, il Tevere. Su un isolotto, un edificio: è l’ospedale Fatebenefratelli.

Qui, nell’anno Mille, il tempio dedicato al dio Esculapio fu sostituito da un santuario-ricovero per gli ammalati, retto da una comunità di suore benedettine. Era dedicato all’apostolo san Bartolomeo. Verso la metà del xvi secolo, avvenne poi una “rivoluzione”: gli ospizi di ricovero diventano “fabbriche della salute”, anticipazioni rinascimentali dei moderni ospedali, in cui i malati non venivano più esclusivamente albergati, ma sottoposti alle cure di medici e infermieri.

In questo nuovo panorama “sanitario” si inserisce la storia del portoghese Juan Ciudad. È il nome di san Giovanni di Dio, l’uomo che dopo un’esistenza errante e dissoluta, si converte al Signore e fonda l’ordine religioso dei Fatebenefratelli.

Juan aveva vissuto sulla propria pelle cosa volesse dire vivere fra gli ultimi, essere fra loro. Essere “uno di loro”. Lo aveva sperimentato in un manicomio. A Granada, in un giorno del 1539, ascolta una predica del mistico Giovanni d’Avila e viene preso come da una folgorazione. È l’inizio del sacro fuoco della “follia” di Dio.

Va in giro a chiedere la carità, scalzo, mendicando e condividendo i suoi beni con i poveri. A chi incontra, parla così: «Fate del bene a voi stessi! Fate bene fratelli». Diviene il suo motto.

Uno slogan, si direbbe oggi. Potrebbe essere — in fondo — anche il titolo di un moderno best-seller, magari. In fondo, in quella città spagnola, Juan si presentava come venditore di libri. E di questi, lui si innamora una volta per tutte nel periodo della sua formazione di fede. Diventano i compagni della sua esistenza. Le parole stampate e le illustrazioni: anche in questo caso, l’amore — come quello per Dio — nasce rapidamente.

In Juan troviamo, infatti, già un pioniere della stampa, un uomo della comunicazione eccezionale fra i suoi contemporanei. Esortava, così, i cittadini di Granada: «Che nessuno si privi di un simile aiuto: le immagini, basta guardarle per ravvivare la devozione, esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi».

Ed è alquanto insolito che proprio lui, amante delle parole, non abbia lasciato nessuna Regola scritta per il proprio ordine religioso.

L’unico testo fondamentale per Giovanni di Dio è il Vangelo. Ma, un Vangelo che diviene — soprattutto — azione quotidiana in mezzo ai letti di ospedale, agli malati, agli emarginati, a chi soffre. A chi chiede — con mano tesa — un aiuto per lo spirito, per il corpo. La follia di Dio in lui risiedeva nello stare accanto a questi “derelitti” senza preoccuparsi minimamente di sé. Non è da considerarsi semplice una simile opera all’epoca, né tantomeno nel nostro oggi.

La pandemia che stiamo vivendo ci sta lasciando un altro vangelo non scritto, forse. E san Giovanni di Dio ci sarebbe entrato non “con tutte le scarpe”, ma — molto probabilmente — ancora una volta scalzo perché è questa la nudità del Vangelo.

di Antonio Tarallo