Nelle fotografie di Josef Koudelka in mostra al Museo dell’Ara Pacis di Roma

Rovine che parlano

Amman, Giordania, 2012 © Josef Koudelka/Magnum Photos
09 marzo 2021

Josef Koudelka avrà sicuramente dato parere favorevole a che il titolo della mostra allestita al Museo dell’Ara Pacis di Roma e del relativo catalogo sul suo ultimo imponente lavoro fotografico fosse Radici. Tuttavia sarebbe stata preferibile la traduzione letterale del titolo francese originale, Ruines, “rovine”, perché le suggestive immagini questo mostrano e perché tale termine non sembra affatto sminuirne il contenuto, visto che le rovine ritratte sono il lascito di antiche civiltà e perciò stesso rappresentano implicitamente le radici della nostra. Del resto è l’autore a precisare che «le rovine non sono il passato, sono il futuro che ci invita all’attenzione e a godere del presente». Se poi aggiungiamo che il fotografo nella sua vita è stato un instancabile viaggiatore, avendo il mondo come patria, il termine italiano scelto per questo progetto sembra non rendergli giustizia. A meno che Koudelka, classe 1938, accettando tale cambio non abbia voluto dirci che anche per lui è arrivato il tempo di mettere radici. E dispiacerebbe molto, viste le immagini che ci ha regalato finora, dagli scatti sull’invasione sovietica di Praga a quelli di Exiles e di Zingari per intenderci.

Aperta al pubblico fino al 16 maggio, salvo restrizioni, la mostra romana ha comunque un sottotitolo che in parte riscatta l’imperfezione. Infatti «evidenza della storia, enigma della bellezza» offre un’indicazione sul senso del progetto, che porta il visitatore a confrontarsi con il passato per riconoscere in quella bellezza il presente. Una bellezza che il tempo e gli uomini hanno scalfito ma non cancellato e che attraverso l’obiettivo panoramico di Koudelka ci viene riproposta per essere riscoperta e riassaporata. Un viaggio attraverso il tempo, dunque, lungo il bacino del Mediterraneo, quel Mare Nostrum che dell’ascesa e fine di quelle lontane civiltà è stato complice e spettatore.

Ed è bello perdersi tra le oltre cento spettacolari immagini panoramiche in bianco e nero, di grande formato, ripercorrendo le stesse strade polverose calcate da Koudelka in quasi trent’anni. La prima foto di quello che è diventato il progetto più ambizioso del fotografo ceco fu infatti scattata nel 1991 a Delfi, l’ultima nel 2018 a Petra. Nel mezzo, 27 anni, migliaia di scatti e di chilometri — tra Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro (Nord e Sud), Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania, Croazia e naturalmente Italia — alla ricerca della giusta inquadratura e della luce migliore, quelle capaci di cogliere lo spirito di un luogo e di chi lo realizzò.

Bernard Latarjet, presidente dei Centres Cultureles de Rencontre, in uno dei saggi pubblicati nel volume che accompagna la mostra (Radici, Roma, Contrasto, 2020, pagine 367, euro 89), riferendosi ai primi panorami poi confluiti nel progetto, rileva che «le rovine fotografate da Koudelka sembravano l’allegoria di un’attualità di cui lui, con la sua arte, restituiva il senso nel nostro presente: sulle sponde del “mare comune” c’era tutta l’attualità della nascita dell’Europa, dei suoi valori fondanti, l’attualità dei rischi della loro morte. L’Europa delle rovine è quella in cui la mente fa dialogare la ragione e la fede, la libertà e la legge, quella di cui, per dirla con Jacques Berque, “portiamo dentro di noi le macerie ammucchiate e l’instancabile speranza”».

Lo sviluppo del progetto non ha modificato questa impressione. Sottratti alla distraente presenza umana, i panorami appaiono senza tempo, affascinanti come solo possono esserlo le vestigia di un passato che ha plasmato il presente. Koudelka ce le mostra attraverso prospettive inedite e inconsuete che, lontano dal volerci restituire una semplice illustrazione documentaria, danno ampio respiro ai resti delle antiche civiltà del Mediterraneo. Richiamandosi in qualche modo alla visione artistica del rovinismo settecentesco, qui a emergere è la rappresentazione di un’eterna tensione tra ciò che è ancora visibile e quanto resterà per sempre celato, in un gioco di rimandi e di echi di una memoria che proprio attraverso le immagini torna a farsi presente.

Tutto ciò è straripante al cospetto delle fotografie di grandi dimensioni della mostra, che sembrano catapultare l’osservatore in uno spazio sottratto al tempo. Una sensazione che in qualche modo, sia pure con meno forza evocativa, emerge anche dal volume curato personalmente dall’autore. Si coglie infatti negli scatti di Koudelka l’intento di voler liberare le rovine dalla temporalità per renderle esemplari nei loro tratti comuni. «Nella sua opera — sottolinea Héloïse Conésa, curatrice di fotografia presso la Bibliothéque Nationale de France — il presente si apre su una visione del futuro che ricorda il passato… Fatta eccezione per alcune immagini, non c’è tipicità nelle rappresentazioni che Koudelka dà dei siti archeologici: essi sono per certi aspetti agiografici e, più che evidenziare le differenze, il fotografo preferisce mettere il risalto le somiglianze».

A soccorrere lo spettatore nel districarsi suoi luoghi, oltre alle didascalie, sono le citazioni letterarie scelte da Alain Schnapp, storico e archeologo francese, che, oltre a localizzare, arricchiscono il percorso dell’originalissimo Grand Tour dell’autore. Ma, più che a Goethe, Koudelka sembra assomigliare a Ulisse, che solcò lo stesso mare, anche se da involontario esule e non da consapevole viaggiatore. Perché quella del fotografo non è un’odissea per tornare in patria, ma una sorta di pellegrinaggio senza una meta precisa, segnata anche da ritorni a distanza di anni, seguendo una mappa che all’inizio non esisteva, ma che è andata delineandosi via via.

«Quando ho iniziato il lavoro sui siti archeologici nel Mediterraneo — racconta il fotografo — ero molto ignorante circa la loro storia. L’ho scoperta piano piano. Se alcune foto costituiscono oggi, o costituiranno in futuro, “documenti” riguardanti situazioni mutevoli che evolveranno, o che scompariranno, tanto meglio. Ma questo non è il mio scopo». Una confessione che può apparire sconcertante, ma non più di tanto per chi conosce l’attenzione maniacale di Koudelka per l’immagine. Perché la cosa che più lo interessa è la ricerca della foto migliore. Nella consapevolezza che comunque ciò che viene rappresentato è la sua visione delle cose, lasciando libero lo spettatore di interpretare.

Del resto, il suo non era un vero e proprio interesse per le rovine. «La motivazione di fondo, ancora una volta — come ha confessato in un’intervista al critico Christian Caujolle — era vedere in che modo l’uomo contemporaneo interviene sul paesaggio. E probabilmente, come in tutto il mio approccio al paesaggio, trovare la traccia dell’uomo».

di Gaetano Vallini