«Notturno» candidato all’Oscar

Una telecamera che ascolta

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04 marzo 2021

«La sfida che ci attende è dunque quella di comunicare incontrando le persone dove e come sono». Lo dice Papa Francesco nel Messaggio per la 55ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il regista italiano Gianfranco Rosi ha passato tre anni nelle terre ai confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, negli stessi luoghi che il Santo Padre si appresta ora a visitare per il suo imminente viaggio pastorale.

Con le immagini raccolte in queste zone martoriate Rosi ha realizzato un documentario molto bello che si intitola Notturno e che è nella short list dei documentari candidati all’Oscar. Sullo sfondo ci sono alcuni episodi chiave della storia recentissima del Medio Oriente: la riconquista di Mosul e Raqqa, strappate all’Isis nel 2017, l’offensiva turca contro il Rojava curdo-siriano nel 2019 e l’assassinio del generale iraniano Soleimani per mano statunitense a Baghdad all’inizio del 2020.

Il film di Rosi, però, non è un reportage sulla guerra. Al centro delle sue immagini ci sono solo le persone. Volti e voci che conquistano il primo piano per dire, ancora una volta, che l’umanità è una e indivisibile, nonostante i confini disegnati dalla politica e nonostante le guerre mosse dagli interessi economici.

La regia di Rosi è impressionante. La sua macchina da presa è immobile. Non si muove mai. Le donne, gli uomini e i bambini piangono e pregano davanti all’obiettivo statico. Raccontano le loro storie e lo spettatore, anche grazie all’immobilità della macchina da presa, si ritrova avvolto e catturato dal dramma di quelle vite dolorose. La scelta registica di Rosi è coraggiosa. Rinuncia al virtuosismo gratuito che è tipico di un cinema privo di idee per dedicarsi completamente alla narrazione. Con un gesto di grande scrittura cinematografica, che è anche morale, come direbbe Rossellini, si mette nella posizione dell’ascolto. Immobile proprio per mostrare rispetto. Vicino, è vero, ma senza prevaricare il vero soggetto della narrazione. Come un fratello.

Nella preghiera conclusiva del messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, fra le altre cose, c’è scritto: «Signore, insegnaci a uscire da noi stessi, e a incamminarci alla ricerca della verità. Insegnaci ad andare là dove nessuno vuole andare, a prenderci il tempo per capire. Donaci la grazia di riconoscere le tue dimore nel mondo e l’onestà di raccontare ciò che abbiamo visto». Certo, la coincidenza fa riflettere. Il primo viaggio pastorale del Santo Padre, dall’inizio della pandemia, si svolgerà proprio in quelle stesse terre dove Rosi ha passato tre anni, dal 2017 al 2020. Della tragedia apparentemente senza fine del Medio Oriente, Rosi racconta le macerie che scavano lo sguardo e le espressioni di donne, bambini e uomini. Caserme, case, carceri, ospedali, comunità di recupero, sono i luoghi deputati di una passione contemporanea che lascia senza fiato.

Alle immagini così empatiche della sua macchina da presa, prossima ma mai invasiva, Rosi aggiunge un colonna sonora raccolta nella diretta fragorosa della nostra quotidianità. Un altro insegnamento prezioso delle sue scelte d’autore. Le voci dei protagonisti infatti vengono quasi sopraffatte dal rumore di un motore o dal fracasso della strada. È come se Rosi ci invitasse a prestare maggiore attenzione alle pa-role.

Succede ogni giorno anche nella nostra vita. Il rumore ci assorda e rende difficile l’ascolto del fratello. Per capire ciò che ci viene narrato dobbiamo fare uno sforzo ulteriore, proprio come chiede il Papa. San Francesco, ha spiegato «dichiara beato colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”».

Rosi, nel 2013, ha vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia con Sacro Gra. Nel 2016 ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino con Fuocoammare. Adesso aspetta l’Oscar. Sarebbe bello che Hollywood si fermasse e si mettesse in ascolto.

di Andrea Piersanti