Più di cinquanta i manifestanti uccisi dai militari golpisti

Myanmar: l’Onu chiede
di inasprire le sanzioni

TOPSHOT - Protesters face off with police during a demonstration against the military coup in ...
04 marzo 2021

Dopo la sanguinosa giornata di ieri, la più violenta in Myanmar dall’inizio della repressione dei militari golpisti, che ha provocato la morte di ben 38 manifestanti, l’Onu ha chiesto di inasprire le sanzioni ai generali.

«Ritengo — ha dichiarato l’inviato dell’Onu per il Myanmar, Christine Schraner Burgener — che gli Stati membri debbano adottare misure molto forti» contro l’esercito, per riportare il Paese asiatico alla democrazia e mettere fine al colpo di Stato militare.

«Ho avuto un colloquio con i vertici dell’esercito e li ho avvertiti che gli Stati membri e il Consiglio di sicurezza potrebbero adottare misure importanti», ha precisato Schraner Burgener. Ma la risposta, ha aggiunto l’inviato dell’Onu, è stata: «Siamo abituati alle sanzioni e siamo già sopravvissuti a quelle in passato».

La situazione in Myanmar si fa di ora in ora più grave. Diverse città nel Paese sono ormai diventate un campo di battaglia quotidiano, dove le forze dell’ordine in assetto antisommossa sparano sui migliaia di manifestanti disarmati, che protestano contro il golpe dello scorso primo febbraio, nonostante i molteplici appelli della comunità internazionale alla moderazione. Un pugno di ferro sempre più violento, che dimostra come l’esercito — dopo avere rovesciato il Governo — voglia rimanere al potere a tutti i costi. Gli interventi più violenti dei militari sono stati segnalati a Monywa, Mandalay e a Myingyan. Situazione molto tesa anche in alcuni quartieri della città di Yangon: da queste zona, dove i soldati hanno vietato l’accesso ai media, sono stati diffusi video di guerriglia urbana, con barricate date alle fiamme dalla polizia e fotografie di giovani uccisi.

Il drammatico bilancio di ieri delle vittime, confermato dalle Nazioni Unite, giunge in scia a un altro fine settimana di sangue, con almeno 18 civili morti. Alle vittime si aggiungono le centinaia di arresti, che hanno fatto salire il totale ad 1.300. Sono stati presi di mira anche i giornalisti, con almeno sei in detenzione per reati che vanno dalla diffusione di informazioni false all’incitamento di dipendenti pubblici alla disobbedienza.

In questo clima, un compromesso — al momento — sembra davvero difficile. Il generale golpista Min Aung Hlaing si è dimostrato finora sordo a qualsiasi appello internazionale, sia a fermare la violenza sia a liberare i politici detenuti, tra cui il presidente, Win Myint, e il consigliere di Stato e ministro degli Esteri, Aung San Suu Kyi.

Sono caduti nel vuoto ieri pure un appello alla «riconciliazione costruttiva» lanciato dall’Asean, l’Associazione dei Paesi del sudest asiatico, e un invito di Singapore a cercare una soluzione pacifica alla grave crisi. Anche le minacce di sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione europea sono state finora inutili. E nonostante i morti e le sparatorie ormai quotidiane, la popolazione continua a scendere nelle strade. Anche oggi sono segnalati numerosi cortei.