Verso il viaggio del Papa in Iraq
I cristiani nelle terre della Mesopotamia

Fratellanza, cittadinanza
comunanza di destino

Il monastero di Rabba Ormisda ad Alqosh
03 marzo 2021

«Voi siete tutti Fratelli». Il motto ufficiale del prossimo viaggio di Papa Francesco in Iraq riecheggia il titolo dell’ultima enciclica papale Fratelli tutti, e si propone come un azzardo di scommessa lanciata sul presente e sul futuro del Paese. Nel contempo, quelle stesse parole, tratte da un richiamo di Gesù ai discepoli riportato nel Vangelo di Matteo («Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli») incrociano per sentieri misteriosi anche la storia bimillenaria dei battezzati nelle terre di Mesopotamia. Il riconoscimento di una comunanza di destino condivisa da tutti i figli di Dio può toccare corde intime nella memoria condivisa di tanti battezzati iracheni.

Nella loro vicenda storica, intrisa anche di sangue e dolore, i cristiani di quelle terre hanno attraversato tempi migliori quando i contesti e le circostanze storiche li hanno condotti a riconoscersi come compagni di cammino e di destino con i conterranei loro contemporanei. Mentre alla lunga hanno sempre pagato a caro prezzo ogni pulsione isolazionista, ogni apartheid subita o cercata. Ogni pur comprensibile riflesso — spesso condizionato da contesti e fattori esterni — a concepirsi come “mondo a parte”, entità separata e chiusa in se stessa, bisognosa di tutele e protezioni dall’esterno.

Al tempo delle guerre tra Impero romano e Impero persiano, il cristianesimo di lingua e cultura siriaca radicatosi negli antichi territori persiani aderisce al nestorianesimo (la dottrina cristologica attribuita al vescovo di Costantinopoli Nestorio, condannata come eresia al concilio di Efeso del 431 d.C.), e questo libera i cristiani locali dal sospetto di essere “quinte colonne” della superpotenza rivale. La Chiesa “nestoriana” (denominata Chiesa assira d’Oriente) dà vita dal vii secolo a un’esaltante espansione missionaria verso est, portando l’annuncio cristiano fino in Cina. Quando i cavalieri islamici travolgono la Persia, la Chiesa assira d’Oriente continua la sua crescita, che durerà fino al xiii secolo. La religione dei nuovi dominatori, collegandosi alla fede di Abramo, appare a quei cristiani come meno distante rispetto allo zoroastrismo seguito dal potere persiano. Poi arrivano i mongoli, che espugnano Baghdad nel 1258, insediano addirittura il Catholicos (a quel tempo massima autorità della Chiesa assira) in un antico palazzo del califfato. L’imponente struttura della Chiesa assira (30 diocesi metropolitane, 200 diocesi suffraganee) viene spazzata via dall’islam intollerante abbracciato dai mongoli sotto Tamerlano solo a partire dall’inizio del xiv secolo.

Per quattro lunghi secoli, quel che resta della realtà cristiana nelle terre dell’attuale Iraq sopravvive arroccandosi nei contrafforti montuosi del Kurdistan. In quel lungo tempo di isolamento, si sclerotizza l’immedesimazione tra appartenenza all’etnia assira e partecipazione ai riti e alle pratiche cristiane. Lo stesso titolo di Catholicos diventa una sorta di carica tribale ereditaria, trasmessa da zio a nipote all’interno della stessa famiglia.

Da allora, il settarismo su base etnica diventa una tentazione ricorrente per molte comunità cristiane della Mesopotamia.

Una deriva frenata in parte anche grazie all’arrivo dei missionari latini, giunti a partire dal xvi secolo: francescani, domenicani, e poi carmelitani e gesuiti.

Attraverso un processo complicato e non lineare, cominciato nel 1553, alcuni vescovi assiri in dissidio con la pratica del catholicosato ereditario scelgono di confessare la piena comunione col vescovo di Roma (verso il quale, in realtà, non vi era mai stato alcun atto diretto di separazione). Inizia allora a configurarsi la Chiesa caldea, aggettivo che da quel momento connota i cristiani assiri in comunione con la Sede apostolica romana. Nei secoli successivi, guidata del suo Patriarca, la comunità cattolica caldea cresce e diventa la maggiore delle comunità cristiane presenti negli attuali territori iracheni. Grazie anche alla comunione con la Sede romana, quella comunità resiste meglio alle derive dell’isolazionismo e dell’etnicismo. Un tratto che si manifesta anche negli approcci espressi davanti alle convulsioni geopolitiche dell’area, e alle manovre politico-militari messe in atto dalle potenze straniere negli ultimi due secoli. Ad esempio, durante la prima guerra mondiale, agenti britannici e russi s’infiltrano in Kurdistan e arruolano gli assiri nella guerra contro il morente Impero ottomano, con la promessa di appoggiare la creazione di uno Stato assiro indipendente alla fine del conflitto. Finita la guerra, le comunità assire dovranno invece fuggire dai territori rimasti sotto la Turchia, ripiegando nel territorio iracheno posto sotto mandato britannico. Lì, i miliziani assiri affiancano le truppe britanniche loro protettrici nella repressione delle insurrezioni sciite e curde. Dopo la scadenza del mandato britannico, nel 1932, con un memorandum alla Società delle Nazioni, reclamano un territorio nazionale dove stabilirsi sotto la guida politica del Catholicos. Ma il nuovo Stato indipendente, imbevuto di rigido nazionalismo arabo, colpisce con ferocia tutti i particolarismi etnico-religiosi che minacciano l’unità nazionale. Nell’agosto 1933, i massacri compiuti in tutta la provincia di Mosul dalle truppe regolari infieriscono sui profughi assiri e anche sulle altre comunità cristiane - siri, armeni, caldei.

Traumatizzata dal bagno di sangue del 1933, buona parte della comunità assira segue sulla via dell’esilio il Catholicos, che ha riparato negli Stati Uniti.

Nell’ultimo secolo, davanti alle convulsioni della storia nazionale, la comunità maggioritaria dei caldei punta invece in più occasioni sulla carta della completa integrazione. I caldei insistono sulla loro “arabità”, minimizzando il proprio particolarismo al solo dato di fede. Così i cristiani rimasti in Iraq dopo l’esodo assiro «si arabizzano culturalmente, al punto di fondersi nella massa. Ormai rassicurato delle loro intenzioni, il potere si disinteressa di loro, e la sua pressione si allenta» (J. P. Valognes, Vie et mort des chrétiens d’Orient, Fayard 1991, p. 747).

 Con questa attitudine mimetica e minimalista i caldei iracheni attraversano tutte le vicissitudini della seconda metà del Novecento, fino a alle campagne militari a guida Usa che porteranno alla caduta del regime baathista. Vanno avanti giocando di sponda col panarabismo laico a cui si ispira la repubblica inaugurata nel 1958. E la nuova Costituzione promulgata nel 1970, due anni dopo l’instaurazione del regime militar-socialista guidato dal partito Baath del generale Bakr e di Saddam Hussein, riconosce personalità giuridica alle principali confessioni cristiane tra cui caldei, assiri, siri cattolici, siri ortodossi e armeni.

La condizione dei caldei e degli altri cristiani sotto il militar-socialismo baathista non può essere idealizzata. Anche loro, senza armi e senza potere, subiscono limitazioni, soprusi e sofferenze di cui è vittima tutta la popolazione. Ma in quei decenni, appare impossibile bollare i cristiani autoctoni di Mesopotamia come “corpo estraneo”, comunità non partecipi della sorte comune del popolo iracheno. La disapprovazione espressa dalla Chiesa caldea guidata dal Patriarca Raphael i Bidawid davanti alle operazioni militari a guida Usa Desert storm (1991) e Iraqi freedom (2003) viene  infilzata da circoli occidentali come espressione della sudditanza di una minoranza ricattata dal regime dittatoriale. Ma anche grazie a tale scelta — in piena armonia con le parole di Giovanni Paolo ii e della diplomazia vaticana — nessuno rinfaccia ai cristiani d’Iraq inesistenti complicità coi “nuovi crociati” d’Occidente.

Lo scenario sembra mutare dopo la caduta di Saddam, quando la linea “minimalista” che configurava l’assimilazione culturale e politica dei cristiani in ambiente arabo sembra venire sconfessata. Il revanscismo identitario etnico-religioso esploso nel dopoguerra fino a minacciare con le sue spinte centrifughe il quadro unitario nazionale sembra contagiare anche settori ecclesiali. Gruppi organizzati, attivi soprattutto in seno alle comunità cristiane in diaspora, cominciano a muoversi come rappresentanti di una minoranza etnico-nazionale in lotta per la salvaguardia dei propri diritti sociali, politici e culturali. Se Bidawid in un’intervista del 1974 rifiutava ogni confusione tra fede cristiana e etnicismo politico («Noi dobbiamo distinguere tra nazionalità e Chiesa, tra Chiesa e politica (…). Il titolo caldeo non significa per noi etnicità o nazionalità»), dopo la guerra del 2003 petizioni e memorandum di gruppi caldei e assiri inviati ai politici Usa e a quelli britannici producono come risultato l’articolo 135 della nuova Costituzione, che garantisce «i diritti amministrativi, politici, culturali e educativi per le varie etnie come i turkmeni, i caldei, gli assiri e gli altri componenti, regolati attraverso la legge».

Nel cammino degli ultimi anni, il settarismo contagioso moltiplica le spinte centrifughe e mina la fragile democrazia irachena. Poi arriva anche l’incubo jihadista, che piazza proprio a Mosul la sua capitale, a dilaniare ferite già aperte e gonfiare di sangue i solchi di odio e sospetto che già laceravano il fragile ordito della convivenza nazionale. Louis Raphael Sako, eletto nuovo Patriarca caldeo il 30 gennaio 2013, lancia subito l’allarme sui cristiani che rischiano anche loro di essere contagiati dal settarismo: «Adesso purtroppo si sente qualcuno che dice: sono più armeno che cristiano, più assiro che cristiano, più caldeo che cristiano… in questo modo si spegne il cristianesimo. Noi, come vescovi, dobbiamo essere vigilanti contro queste forme malate di vivere la propria identità».

Dopo gli anni del delirio jihadista, e dei nuovi esodi cristiani, anche il patriarca caldeo abbraccia e rilancia le parole di fratellanza suggerite da Papa Francesco, che riaffiorano nell’attuale tornante della storia mediorientale non come vane divagazioni idealiste, ma come paradossali cartelli segnaletici di una opportunità politica realista: la possibilità di sperimentare e esercitare la comune “cittadinanza” non come trapianto artificiale di modelli culturali imposti dall’esterno, ma come sviluppo già prefigurato nelle attese e nelle esperienze “autoctone” di convivenza dei popoli mediorientali. Una scommessa da proporre a tutti, facendo memoria e tesoro delle occasioni in cui già in passato cristiani, sunniti, sciiti e tutti gli altri hanno sperimentato in quelle terre la propria comunanza di destino, la propria appartenenza allo stesso popolo. I frangenti storici in cui hanno camminato insieme, nei limiti delle proprie fragilità, soffrendo insieme prepotenze di regime, opposti settarismi e “bombe intelligenti”, eppure riuscendo talvolta a comporre le proprie diversità fino al punto di riconoscersi come fratelli, se Dio (in arabo, Allah) vuole.

di Gianni Valente