#CantiereGiovani
A colloquio con Roberto Vecchioni su educazione, linguaggio e creatività

Meglio non stare
con i piedi per terra

Roberto Vecchioni
01 marzo 2021

Roberto Vecchioni, cantautore, scrittore, poeta, è comunque riuscito a insegnare tutta la vita, prima italiano, latino e greco al Liceo Classico di Milano, adesso “forme di poesia in musica” all’università di Pavia. E il suo nuovo libro è un omaggio al mestiere e alla vocazione dell’insegnamento: Lezioni di volo e di atterraggio (Torino, Einaudi, 2020, pagine 208, euro 17) racconta un professore che insegna ai suoi studenti come «aggirare l’ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l’alternativo». Perché quello che si impara non serve a niente se non sappiamo avvolgerlo dentro la vita, come ripeterà più volte nel corso di questa intervista.

Intanto, l’insegnante è più un mestiere o una vocazione?

In un mondo ideale dovrebbe essere una missione per traghettare anime da un nulla a un qualcosa. Quello della vocazione è un concetto romantico molto bello, ma inevitabilmente l’insegnante sta diventando sempre più un mestiere, perché i precari hanno bisogno di uno stipendio.

Per definire l’insegnamento, perché lei ha intitolato il suo libro «Lezioni di volo e di atterraggio»?

Il mito di Icaro dimostra che l’uomo ha di per sé un’aspirazione all’alto. Ma nella nostra costituzione psichica abbiamo una tendenza verso il sublime e una tendenza al terreno, come dei due cavalli di Platone, uno tira verso l’alto e uno verso il basso. Pensi a Petrarca, dimidiato. Abbiamo una parte di angeli e una di fango, perché tutti quanti siamo stati creati con l’argilla da uno sputo di Dio e quindi queste due cose ogni tanto si prendono a pugni. La tendenza al volo fortunatamente ce l’abbiamo e, quando scatta la scintilla, ci diciamo che non siamo fatti per stare coi piedi per terra a ripetere ossessivamente e quotidianamente azioni incomprensibili. Dobbiamo fare qualcosa che rallegri, dia vita, forza e vigore al desiderio che abbiamo dentro di noi di uscire dal guscio e vedere il mondo con occhi che non sono solo utilitaristici. Quello che conta di più al mondo è partecipare dell’essere, dell’esistenza, tentando di coglierne il segreto, andando dietro alla luce, mai al buio. Questo è volare: porsi continuamente domande e, quando si può, appropriate risposte. L’atterraggio non è camminare a terra, ma è l’arte di tornare dal sublime alle cose quotidiane, con molta dolcezza, perché la vita può essere interpretata in due modi: o sei uno che vive sulla terra e ogni tanto fa dei voli oppure sei uno che in genere vola e ogni tanto fa qualche atterraggio.

Lei di quale gruppo fa parte?

Del secondo. Cerco di insegnare ai miei studenti che bisogna sempre tornare alla vita comune, ma non deve essere la nostra costante: la libertà di pensiero e di emozione deve essere l’acme e il senso dell’esistenza. Non si trovano nell’atterraggio, che è materia; io preferisco annusare il celeste, anziché riempirmi le narici di terra.

Qual è il maggiore ostacolo che l’insegnante di oggi deve superare?

Viviamo tutte le cose come se non esistesse una teleologia. Non sappiamo quale sia il fine vero di costruire un palazzo o di tirar fuori il latte da una mucca o di produrre auto: tutte queste cose hanno il fine limitato di soccorrere un bisogno del momento, al di là del quale non c’è altro. Tutto il produrre umano, tutta l’economia umana è senza scopo, è difficile trovare un finale perfino per cose bellissime come salvare una foresta o insegnare cos’è la democrazia. Ma perché, da dove viene l’idea, giustissima, che bisogna essere tutti uguali? Questo fine ultimo va ricostruito nella società, prima di tutto negli studenti, da professori che sappiano adeguatamente suggerire conforti filosofici o religiosi all’esistenza. Che altrimenti, presa così com’è, diventa solo mangiare e vivere. La missione dell’insegnante è quella di uscire dal bisogno consumato (aver mangiato, accoppiarsi, vedere il cielo, abitare in una casa) andare al di là dei bisogni primari. Non è la prima soluzione quella che conta, ma la successiva.

Quindi il compito di chi insegna è rivelare il senso delle cose?

Beh, sì. Non proprio appropriarsi del senso, ma sapere che c’è e cercarlo. Questo a scuola va insegnato fin dall’inizio: perché dimostriamo quel teorema o perché si costruisce un ponte. Altrimenti non c’è un senso nell’esistenza, non c’è finalità: io non posso pensare che questa esistenza sia un incrocio continuo di casi. Non lo è, non deve esserlo. Bisogna trovare un nodo, un nesso che trasformi la casualità in una causalità. Se i ragazzi, mentre studiano Leopardi, il latino o le formule degli idrocarburi cominciassero già a chiedersi perché stanno facendo quello che stanno facendo, la scuola sarebbe molto più giusta.

Nonostante abbia avuto, fin dall’inizio, un grande successo e una vasta popolarità come cantautore, per tutta la sua vita non ha mai abbandonato l’insegnamento. Escludendo l’abbia fatto per soldi, visti gli stipendi modesti della scuola, a che cosa è dovuta questa scelta?

Già da bambino, ogni volta che imparavo una cosa dovevo andare a dirla a qualcuno. Questa è la base dell’insegnamento. Pitigrilli sosteneva che l’ignorante è colui che non sa quello che noi non sapevamo ieri. Nessuno nasce imparato, come dicono i napoletani.

Come definirebbe la cultura?

Una tela, non una striscia di stoffa che si prolunga fatta di tante piccole nozioni. No, la cultura è una rete di cose che si incrociano da tutte le parti, ogni materia finisce nell’altra, le cose spirituali e quelle materiali. Quello che l’insegnante ha il compito di recapitare è il nesso. Quando lo hai trovato ti senti forte e lo devi dare ai tuoi ragazzi.

Vale anche per il cantante?

C’è una differenza abissale tra insegnare e fare il cantante: quando insegni non lo fai per te, per farti bello, non sei il protagonista. Invece sul palco sei tu il protagonista, sei anche egocentrico ed egoista. Il miglior momento del mestiere di cantante è il periodo della scrittura e pensare a ciò che proveranno coloro che ascolteranno quella canzone. Non quando sono sul palco a cantarla, ma il momento in cui sto registrandola in studio provo le emozioni più forti e intense. Magari arriveranno a una persona su dieci, ma per quella avrà l’effetto di una valanga.

Però è più piacevole l’esibizione sul palco per il cantante rispetto all’esibizione dello studente interrogato alla cattedra.

Per me no: già da ragazzino, quando studiavo, avevo un gran piacere quando il professore mi interrogava, perché avevo la possibilità di dirgli tutte le cose di cui mi ero innamorato studiando letteratura greca, latina o italiana, magari argomenti fuori dal libro, completati da me, e aspettavo la mattina che mi interrogasse. Non per far vedere quanto ero bravo, ma per esprimere quanto è bello il mondo, quanto è bella la cultura. Questi sono i momenti che mi hanno dato il bisogno di insegnare tutta la vita: insegnare è un continuo regalare, donare tutte quelle piccole scintille che ai ragazzi servono come corazza e porto sicuro alle intemperie.

Per questo oggi è ancora più importante che la scuola riesca a comunicare la cultura.

C’è una differenza abissale tra chi ha cultura e chi non ce l’ha. Chi ha cultura sa che ci sono cose transeunti, mentre le realtà sono quelle platoniche: il bello, il vero, il giusto. Tutte il resto è transeunte, ma se sei abituato a una filosofia di vita per cui le cose che contano sono solo quelle che ti colpiscono al momento, sei fregato e la vita ti stresserà continuamente. La cultura toglie lo stress e la paura di fronte alle incertezze del mondo. La cultura ti rende forte.

La scuola di oggi riesce a svolgere il suo compito in modo migliore o peggiore di quella di ieri?

Molta scuola di oggi è ben fatta. Gli elementi umani e vivi della scuola sono all’altezza: insegnanti e studenti vanno bene, mentre palesemente indietro, in una disarmonia stridente con la qualità umana, sono i luoghi e i mezzi. Sarebbe come insegnare Aristotele in una caverna: le idee ti entrano meglio in testa se hai luoghi adatti, libri adatti e insegnanti più allegri perché guadagnano un po’ di più e non hanno il nervoso perché mancano i soldi per pagare una bolletta... Però negli anni Sessanta e Settanta, le scuole erano meglio tenute, c’era una coerenza tra gli oggetti e le persone molto più stretta rispetto a oggi. Oggi abbiamo libri che non servono a niente e libri che servono a troppo, computer che a volte servono e a volte non servono per niente. Non si può imparare tutto sul computer: in un esercito il computer sarebbe un plotone di collegamento, non di assalto.

Quali consigli darebbe a un insegnante di oggi?

Di essere più istintivo e più lento, meno succube del programma e del tempo, che oggi ti uccide perché devi essere veloce, correre. A un insegnante di lettere raccomanderei di evitare tanti autori inutili e di non trascurare il Novecento, un secolo che sprigiona idee, ricchissimo di umanità, arte, architettura. E poi basta col limitarsi alla letteratura italiana, facciamo almeno quella europea, se non mondiale e fino al Duemila. Infine dare spazio soprattutto alle cose spirituali, che sembrano diventate inutili, perché fanno perdere tempo alla contrattazione delle cose materiali.

Che ne pensa della didattica a distanza?

In questo momento è obbligatoria, non ci sono altre soluzioni. Pensi che disastro spaventoso sarebbe stato per la scuola una pandemia cinquant’anni fa. Sembra esserci una specie di Provvidenza, perché le cose tremende avvengono quando hai la possibilità di rintuzzarle. Purtroppo i ragazzi devono imparare senza confrontarsi, senza un dialogo più largo, secondo la varietà della vita. Però è una necessità che dobbiamo saper reggere. E l’avremmo retta meglio se avessimo avuto tutti quanti più cultura. Seneca insegna che il tempo dipende da noi. Meno male esistono mezzi telematici per salvare il salvabile. E non disperiamo anche se abbiamo perso il gusto della cultura vera, perché ritornerà. I ragazzi di oggi hanno una grande velocità intellettuale e ce la faranno bene a recuperare.

Nel suo libro, li omaggia dando a ognuno di loro nomi di celebri pittori.

È una scelta di archetipi umani: i grandi pittori hanno già un carattere, una personalità. Il pittore dipinge la realtà come la vede lui, è un traduttore sensoriale di una realtà esterna, che ognuno vede a suo modo.

La frase chiave che racchiude il senso del suo libro dice: «Le parole in una grammatica o in un vocabolario si spengono»; come si può dare sangue, vitalità, energia alla cultura e portare la vita dentro l’insegnamento?

Insegnando la parola come un fatto dinamico, non statico. È un errore catastrofico usarla senza capire la sua struttura. Dentro la parola c’è un nucleo, la parola ha degli elettroni, dei neutroni che girano intorno, si è trasformata nel tempo a seconda delle cellule che ha incontrato. Ha una vita continua e indica anche come è cambiata la storia, attraverso i modi di dire, i proverbi, mostra i mutamenti dell’economia, della politica, della vita. Parimenti col mutare del cammino umano. E va insegnata e vissuta in questo modo. Quando mi imbatto in una parola, vedo sempre dentro di lei una straordinaria vitalità.

di Fabio Canessa