Una riflessione ispirata dall’episodio evangelico della Trasfigurazione

Cambiamento

Marco Pino da Siena «Trasfigurazione» (1577)
01 marzo 2021

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (Marco 9, 2-3). Trasfigurazione traduce il termine greco “metamorfosi” che qui indica il cambiamento nell’aspetto, la modifica della forma. Cambiare e al tempo stesso rimanere se stessi è la sfida dell’esistenza umana, dal fiore dell’infanzia alla maturità della vecchiaia. Tutto di noi è già nell’embrione, eppure diventeremo anche altro, e dipenderà da molti fattori. Difficile sapere quale percentuale ha la componente dell’esperienza rispetto a quella biologica. Potremmo anche essere contemporaneamente prigionieri liberi: da una parte condizionati, dall’altra capaci di autodeterminarci. Sicuramente sono le relazioni a plasmarci, a cominciare da quelle più antiche, genitoriali, principalmente materne.

Esistono però anche mutamenti involontari, totalmente indipendenti da noi. Può darsi che non siamo responsabili delle situazioni in cui ci troviamo, ma potremmo diventarlo se non faremo nulla per cambiarle. I cambiamenti di solito fanno paura: quella che per il bruco è una tragedia, per la farfalla è l’inizio del mondo. Qualcuno ritiene che rimanere sempre delle stesse convinzioni sia coerenza, qualcun altro invece pensa che sia meglio adattarsi. Si potrebbe anche concludere che sia solo questione di carattere: il pauroso è prudente, il coraggioso azzarda. Con questa alternativa però si esclude l’irrinunciabile necessità di essere flessibili, che bene o male vale per tutti.

Per trovare una via, così pregava san Tommaso Moro: «Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto la saggezza di saperle distinguere». Forse il problema non sta in ciò che accade mio malgrado, ma quel che ci faccio con ciò che accade. Qual è allora il criterio per scegliere tra immobilismo e cambiamento? Chi ha degli obiettivi fa di tutto, con la speranza di raggiungerli. Allo stesso tempo, però, intervengono elementi di disturbo, ostacoli che si frappongono, allora è il momento di discernere. Da ciò che siamo disposti a cambiare, senza rinunciare alla speranza, dipende il futuro.

In altre parole, si tratta di decidere tra «Resistenza e resa» — come recita il titolo di uno libro di Dietrich Bonhoeffer, teologo protestante tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo, morto nel Campo di concentramento di Flossenbürg — il quale scriveva: «L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé. [...] Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore».

di Maurizio Gronchi