Codogno un anno dopo

Il bene sommerso
della fraternità

La chiesa di San Biagio a Codogno (Afp)
27 febbraio 2021

Un anno fa in zona rossa a Codogno, senza celebrazioni quaresimali partecipate, ci ha pensato il virus ad ammonirci: “Ricordati che sei polvere”. È ripresa ora in parte l’attività pastorale, facendo però i conti con dispositivi vincolanti. I guai che ha portato in dote la pandemia in campo sanitario, economico, relazionale sono sotto gli occhi di tutti e a poco serve aggiungere pagine al libro delle Lamentazioni. E neppure ha senso suonare la tromba del giudizio davanti a un’umanità prostrata. C’è però qualche tratto significativo su cui investire ulteriormente per un domani che non sia la fotocopia del passato.

Ha prevalso infatti un forte senso di responsabilità di fronte all’emergenza e le restrizioni sono state assunte con compostezza e pazienza, consapevoli del bene primario in gioco, la salute; allo stesso tempo coscienti anche del prezzo che comportavano. L’esito non era scontato, ma il risultato è che si è parlato del “modello Codogno”, e non soltanto per la strategia di contenimento. Certo la paura era palpabile da quando il silenzio è calato su una città raggelata dall’urlo delle sirene, sgomenta per l’incalzare di lutti e ricoveri, smarrita per la scarsità di difese e protezioni rispetto a un virus sconosciuto. Ha vinto tuttavia la responsabilità, alimentata da una fede profondamente radicata nella storia secolare di questa comunità. E poiché la fede non ci regala una polizza di assicurazione contro le prove della vita, l’emergenza l’abbiamo vissuta non come semplice ostacolo, ma come opportunità, senza annidarci su sicurezze che risultano presto effimere.

Grazie anche a tale senso di responsabilità si è manifestato un potenziale impressionante di reti di solidarietà nella dedizione degli operatori sanitari, delle forze istituzionali, del volontariato, del terzo settore e della stessa comunità ecclesiale: era la condivisione del monito di Papa Francesco “non ci si salva da soli”. Era il sommerso del bene affiorato per la ricostruzione della nostra società. E il nome nuovo di questa risorsa è “fraternità”. Come dimensione integrante della fede, che non si riduce alla moltiplicazione dei riti, perché al sacrificio rituale essa abbina inscindibilmente la misericordia.

Eravamo, specialmente i primi mesi, nel deserto dove convivono, come per Gesù, bestie selvatiche e angeli: accanto alla bestialità del virus, vero Erode che ha provocato e provoca la strage degli Innocenti, è emersa la presenza di angeli che recano conforto e salvezza, come tutto il personale e le diverse componenti sociali che si sono fatte carico di prossimità e cura. E la stessa comunità nel corso di questo anno ha investito le sue energie nel favorire una rete di comunicazione per la vicinanza e la coesione tra i fedeli a distanza o, dove possibile, in presenza, ma anche nelle iniziative di cura per i più fragili o nella ospitalità attivata in alcune strutture parrocchiali messe a disposizione.

Ciò nonostante, la restrizione imposta alle relazioni durante la pandemia a volte ha fatto insorgere in noi il timore di un pericolo nei contatti, perché potenzialmente contagiosi. Se assecondato, genera un clima di sospetto, scudo della propria incolumità, ostacolo alla concessione pregiudiziale di fiducia a chiunque. Siamo vaccinati contro questo clima quando c’è consapevolezza che le restrizioni sono a salvaguardia della vita di tutti, e quindi della stessa fraternità. Ma anche la relazione fraterna ha una sua “misura”, risponde a una regola di vita. L’accoglienza, certo non supina, dei dispositivi sanitari e della normativa che ha accompagnato l’istituzione delle diverse zone per il contenimento del contagio ha giovato; ma, soprattutto a livello di ragazzi e adolescenti e non solo, ha favorito anche un apprezzamento della norma e un senso più positivo della regola: niente di eccezionale, ma non è poco in una stagione pedagogica segnata dalla “catastrofe educativa”. La riscoperta del silenzio in città, dei tempi distinti di notte e giorno, di rispetto per l’incolumità non solo fisica dell’altro, di riconoscimento di un bene superiore che impegna la libertà di ciascuno: sono esperienze che pur nell’eccezionale imposizione del momento, ci hanno fatto cogliere la sensatezza di una regola di vita.

Con questo non dimentichiamo che le restrizioni in nome del bene della salute hanno avuto un impatto pesante nei settori dell’economia, del lavoro, della scuola, della vita familiare e sociale, con l’accelerazione di processi di cambiamento che segneranno il tempo della ripresa. Diverse attività produttive e imprese di vario genere sono in difficoltà e se non si affretta l’arresto dei contagi si rischia la chiusura. Le soluzioni, come quella dei vaccini, sono in mano a responsabilità non solo nazionali, bensì ormai globali. Stagione di grandi preoccupazioni. Che più intensamente ci fa condividere il travaglio non temporaneo, ma permanente di diverse popolazioni al mondo, dimenticate anche da noi. Rimane comunque, in merito ai nostri stili di vita, la necessità di un cambio di passo. Con la consapevolezza che non potremo tornare alla situazione pre-pandemia: faticheremo in questo passaggio, ma ce lo chiede la comunità di domani. E vivendo una stagione sinodale in Diocesi, stiamo affrontando questa prospettiva anche dal punto di vista dell’azione pastorale.

E così non sarà trascorso invano questo tempo. Perché il rischio esiste, se alla fine tutto resterà come prima. Abbiamo cercato, passo dopo passo di cogliere il senso di quanto ci sta capitando. Il deserto in cui ci siamo ritrovati non è stato semplicemente occasione di isolamento, ma invito a rientrare in se stessi, che è il movimento tipico della conversione. Non è bastata la cronaca della pandemia, che ha invaso tutti gli spazi della comunicazione. Aiutare a cogliere il senso della storia è il nostro compito, non la semplice cronaca. La prima apre al futuro con il cambiamento, con la conversione; la seconda rischia la nostalgia del passato, il rimpianto delle cipolle d’Egitto. Se nella vita tutto resta aperto al futuro e all’incontro con Dio, l’ora della prova è quella che maggiormente si avvicina all’“ora” di Gesù, quella che continua a dare senso alla vita del mondo. Ora di tentazione, di deserto, di apparente sconfitta e abbandono. In realtà, proprio questa è l’ora di una Parola che dà senso al sacrificio della attuale stagione. Mi sono ricordato più volte che il padre del deserto Antonio sfinito dalla lotta vittoriosa contro le tentazioni, vede il Signore e gli chiede: «Dov’eri? Perché non sei apparso fin dall’inizio per porre fine alle mie sofferenze?». E si sente rispondere da lui: «Antonio, ero qui a lottare con te».

di Iginio Passerini
Parroco di Codogno