L’impegno di Caritas e dell’ong Ipsia-Acli

Per guarire
le ferite dell’anima

 Per guarire le ferite dell’anima  QUO-046
25 febbraio 2021

Il sogno è a soli quattro chilometri. È l’Unione europea, luogo in cui sperano di ricostruirsi una vita migliore. Per raggiungerla stanno mettendo a rischio la propria. Attraversano fiumi gelati, boschi innevati e montagne impervie. È una condizione che accomuna i quasi quattromila migranti che vivono nei campi profughi a Bihać, una città della Bosnia ed Erzegovina situata al confine con la Croazia. Queste persone fuggono da guerre, da regimi dittatoriali o dalla povertà. La maggior parte di loro è stata respinta alla frontiera, dove racconta di aver subito pestaggi e il sequestro di denaro e cellulari. «Il problema più grande sono i circa duemila migranti che vivono in ripari improvvisati: case abbandonate, capannoni di fabbriche, piccole tende o rifugi nelle foreste qui intorno. Non hanno elettricità, né acqua, né cibo». Lo racconta a «L’Osservatore Romano» monsignor Miljenko Aničić, direttore di Caritas Banja Luka. Intanto, si moltiplicano le iniziative di aiuto, come lo spazio ricreativo gestito insieme all’ong Ipsia-Acli il cui presidente, Mauro Montalbetti, parla dell’imminente apertura di un refettorio: «Grazie alle donazioni, soprattutto da parte di Caritas ambrosiana, abbiamo creato delle tensostrutture riscaldate per consentire alle persone di mangiare i pasti distribuiti dalla Croce rossa stando seduti e al riparo dalle intemperie».

Il nord della Bosnia ed Erzegovina costituisce il tratto finale della rotta balcanica. Un percorso che inizia in Medio oriente e in Asia meridionale, e prosegue con la traversata via mare dalla Turchia alla Grecia. Sul tragitto si incontrano soprattutto afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani. Tra loro anche tante madri, minori non accompagnati, anziani e persone con disabilità. Nel 2015 un enorme flusso di persone in fuga dalla guerra in Siria attraversò la Macedonia e la Serbia per stabilirsi nell’Ue. Per arginare il fenomeno venne costruita una barriera tra Ungheria e Serbia, ma i migranti aprirono nuovi passaggi in Kosovo, Albania e Montenegro. Dal 2018 la Bosnia ed Erzegovina è la nuova meta per chi vuole entrare in Europa. Si stima che oggi nel Paese vi siano 8-10 mila profughi radunatisi intorno a Sarajevo e lungo il confine con la Croazia. «All’inizio non c’erano particolari problemi e la popolazione accoglieva i migranti», spiega Montalbetti. «Quando hanno capito che il fenomeno dei campi stava diventando stanziale, hanno cominciato a dare segni di insofferenza. In quelle zone, non particolarmente ricche, spesso si emigra per lavoro. È stato un disagio che si è aggiunto a problemi già presenti».

Per tale motivo, lo scorso dicembre, il ricollocamento nelle città limitrofe di milleduecento ospiti del campo di Lipa in via di chiusura ha suscitato proteste tali da fare optare per la riapertura del centro. Non è semplice dare voce a un tema divisivo come quello dell’accoglienza che in Bosnia ed Erzegovina alimenta anche le tensioni etniche tra bosniaci, croati e serbi. Le ferite della guerra combattuta negli anni Novanta, infatti, si stanno ancora rimarginando. Le autorità cercano anche di preservare l’equilibrio della convivenza fra ortodossi, cattolici e musulmani. «La Chiesa locale pone un forte accento sul dialogo interreligioso e sul rispetto reciproco. Aiuta i migranti attraverso la sua Caritas di Banja Luka — afferma Aničić — e in questo lavoro comune collaboriamo anche con alcune associazioni musulmane». A Bihać, per esempio, dove il 95 per cento della popolazione è di fede islamica e la minoranza cattolica è in continua diminuzione per via dell’emigrazione, la diocesi gestisce una scuola primaria in cui l’80 per cento dei bambini è musulmano. «La Caritas vuole contribuire alla riconciliazione, alla pace e alla convivenza», ribadisce.

La presenza dell’organizzazione caritativa diocesana all’interno dei campi profughi, gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dallo Stato, è limitata. Nel centro di ospitalità di Borići, all’interno dell’abitato di Bihać, dal 2018 è attiva una lavanderia con tre persone che assistono i migranti. Una seconda iniziativa, avviata lo scorso anno con Caritas Austria, riguarda la distribuzione di sacchi a pelo, vestiti, scarpe, coperte, prodotti per l’igiene, cibo, farmaci e legna da ardere. Beni che una terza linea di intervento in collaborazione con le suore missionarie della Carità garantisce a quelle duemila persone che vivono al di fuori del sistema di accoglienza. Infine, viene offerta una base logistica al Servizio dei gesuiti per i rifugiati di Zagabria che esporta aiuti per i bambini di Bihać. Sono iniziative supportate dalle donazioni di Papa Francesco, Catholic Relief Service, Caritas Italiana, Caritas Svizzera, Caritas Torino, con il sostegno della Croce rossa, di alcune parrocchie di Gorizia e altri protagonisti.

L’hotel Sedra, situato sulle rive verdeggianti del fiume Una a pochi chilometri da Bihać, è diventato un centro di accoglienza per famiglie e ospita 80-90 minori. All’interno c’è lo spazio ricreativo gestito insieme ad Ipsia-Acli, un’organizzazione che in Bosnia ed Erzegovina è presente fin dalla fine della guerra, quando avviò i programmi di reinserimento dei profughi tornati in patria. Oggi è attiva soprattutto nelle aree rurali con progetti scolastici, sportivi e di volontariato. Attualmente supporta i migranti collaborando con Croce rossa e Caritas per alleviare le emergenze nei campi e distribuendo beni di prima necessità. «Adesso siamo in una fase di transizione. I campi sono in situazioni precarie: in alcuni non c’era acqua calda, né luce», spiega Montalbetti. «Il governo ha intenzione di strutturarli meglio, ma rallentamenti vari e il clima avverso hanno ritardato la presa in carico». L’organizzazione è presente anche in Serbia, dove si stima ci siano altri 8-10 mila profughi.

Il direttore di Caritas Banja Luka racconta degli attacchi ricevuti per aver proposto la costruzione a Bihać di case per minori migranti. Dice che i leader politici dei tre gruppi nazionali non cercano nemmeno un accordo sui profughi, mentre la popolazione è sfiduciata e si domanda se rimanere o emigrare. «Chi dovrebbe costruire la Bosnia ed Erzegovina? Chi dovrebbe prendersi cura degli abitanti che restano, molti dei quali sono ammalati, impotenti, anziani?».

di Giordano Contu