A colloquio con il cantante Cristiano Godano

La bellezza
va cercata ovunque

Jean Baptiste Oudry «Natura morta con violino» (1730)
25 febbraio 2021

Il 2020 è stato prolifico per la musica d’autore con dischi di alto spessore artistico, pubblicati nell’anno peggiore del dopoguerra. Samuele Bersani, Francesco Bianconi, Brunori Sas, Giorgio Canali e Ginevra Di Marco dimostrano che il cantautorato italiano è vivo e vegeto. Particolare il disco solista di Cristiano Godano, frontman dei Marlene Kuntz, in cui supera i canoni tradizionali della musica rock e proponendo un’articolata visione dell’uomo contrapposta a un suono ossuto difficilmente rintracciabile in un disco dei Marlene. L’album Mi Ero Perso Il Cuore canta del rapporto tra padre e figlio, della necessità di un conforto, di relazioni umane inquinate dalla viltà. Abbiamo incontrato Godano per comprendere a pieno l’esperienza solista e un disco tra i più sorprendenti.

Al centro della sua scrittura c’è una narrazione ardimentosa e febbrile dell’uomo. Ricorda le opere in prosa di Dante, Leopardi e Petrarca, uno stile che rompe gli argini delle canzoni e confluisce nella letteratura. Dica la verità… lei è un umanista camuffato da musicista.

Mi tocca fare la parte dell’imbarazzato. Quei nomi farebbero arrossire chiunque, figuriamoci un semplice cantante rock italiano. Sono colpito dalle qualifiche «ardimentosa e febbrile» per parlare della mia narrazione dell’uomo. È al centro dei miei interessi un approccio intenso alla natura umana. La cosa che più mi ha stimolato in questi 30 anni di creatività è scavare a fondo nei tratti della nostra essenza. Se ciò confluisce nella letteratura, come dice lei... ben venga. La letteratura è l’ambito espressivo in cui mi rifugio quando sento di aver bisogno di uno stimolo per la mia ispirazione. Può esser vero che io sia un umanista mascherato da musicista, riportando il tutto all’epoca attuale.

Nel libro «Nuotando Nell’Aria» racconta la genesi di 35 canzoni dei Marlene Kuntz, la band cui appartiene. Spiegando il brano «Mala Mela», ammette di non aver mai letto la Bibbia, senza però escludere un riverbero della Parola nel suo inconscio. Le propongo un verso del prologo di Giovanni, «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».

Conviene avere speranza, non c’è nulla da perdere. Così come conviene avere fede. Mettendo da parte quel tipo di speranza assai banale che all’epoca del primo lock-down campeggiava da ogni balcone (quell’“andrà tutto bene” esibito con l’entusiasmo che si prova in un nuovo gioco in cui coinvolgere tutti), comprendo l’importanza del concetto. Restando in tema covid e lockdown (le tenebre), è necessario, per nutrire la speranza, intravedere la luce splendente detta da Giovanni, cercandola in quella crepa “leonardcoheniana”: dovrem(m)o dedicare il nostro tempo a osservare la luce che trapela e interpretarla, per approdare ai tempi migliori del rinnovamento. Io ho un temperamento che definirei malinconico-pragmatico, se penso al ciclo naturale degli accadimenti le tenebre non sono mai per sempre, così come per sempre non è nemmeno mai la luce. Per capire chi può essere il vincitore bisognerebbe aspettare la fine dei tempi e osservare con la giusta palpitazione il rush finale.

In «Mi Ero Perso Il Cuore» spera in una cura vaccinale per immunizzarci dall’uso esclusivo della ragione. Per conoscere e pensare la verità serve il cuore e non la mente, senza timore di mostrarsi deboli e fragili. Si rivela ammansito dall’amore, preferendo il cuore alla ragione. Un’anomalia nell’ambiente rock, ne è consapevole?

Mi è capitato in due interviste di dover correggere il tiro rispetto alle cose che avevo detto del mio disco: rimarcare la mia devozione deferente nei riguardi della mente. Se dovessi rispondere alla domanda “Quali sono per te i valori più affascinanti in un uomo?”, indicherei la sua cultura, frutto di un uso sagace della mente. Invidio chi ha tanta cultura, perché al cospetto di gente acculturata mi sento un po’ piccolo (e mi salvo in corner ricordando a me stesso di avere una sufficiente dotazione di intelligenza, altro valore per cui essere contenti di sé). A cosa mi riferivo quando parlavo di quell’immunizzazione da lei citata? Non all’uso della ragione, per carità, ma al sopruso della mente quando diventa pensiero ossessivo, rimuginio, vessazione. È tipico della persona ansiosa o depressa cadere preda del pensiero-scimmia (la nostra mente come una scimmia impazzita che salta senza sosta da un pensiero all’altro). Come la meditazione, il buddismo e lo yoga insegnano, la cura vaccinale di cui parlo è trovare il giusto metodo per lasciar scorrere questi pensieri senza badar loro, recuperando il cuore come antidoto. Non sarei così sicuro che il rock viva solo di ragione, in verità… C’è molto cuore in molto buon rock.

Nel disco la comunicazione intra-familiare è sofferta e distorta, ciò accade nelle storie complesse raccontate in «Padri e figli» di Ivan S. Turgenev, in «I demoni» di Dostoevski, «Lettera al padre» di Franz Kafka o in «Casa» di Marilynne Robinson. Nel suo repertorio, ad esempio in «Canzone Per Un Figlio», leggiamo che la poesia ci fa sentire la forza della bontà. L’arte aiuta a definire il rapporto con un figlio?

Il rapporto che si instaura con il proprio figlio è il frutto di un’avventura esistenziale di particolare complessità. Ho subdolamente influenzato mio figlio già mentre sguazzava nel liquido amniotico facendogli “ascoltare” le musiche complesse che sentivo in quel periodo, Luciano Berio ad esempio, di modo da dargli il giusto imprinting. Quando il figlio esce dal grembo materno, la sua crescita si forgia senza possibilità di rendersi conto verso quale forma e direzione. Io ho avvicinato mio figlio fin da giovincello alle cose belle e intense dell’arte, gli ho scritto poesiuole quando era piccino: gliele facevo trovare sul tavolo della colazione prima di andare a scuola. Ora ha 22 anni e mezzo, il confronto con lui è intrigante e adulto. Il passaggio dell’adolescenza, protrattasi sino a 19 anni, è stato impervio e complicatissimo, non c’era nessun carisma come rendita di posizione che potessi vantare per ottenere rispetto o considerazione. A questa domanda, tre-quattro anni fa avrei forse risposto in modo meno positivo. Credo in quella “forza della bontà” che lei con molta attenzione per il mio lavoro ha sottolineato (e la ringrazio): mio figlio è a tutti gli effetti buono, ed è anche l’insegnamento dell’arte proveniente da me che ha sortito questo risultato.

C’è un brano che le appartiene e s’intitola «Bellezza» con dei versi meravigliosi: «E noi, compresi e amabili o offesi e succubi / Noi cerchiamo la bellezza ovunque». Paolo vi scrisse agli artisti definendoli «gli innamorati della bellezza» e Papa Francesco parlando in pubblico disse che gli artisti ci fanno capire cosa è la bellezza, che senza il bello non si può capire Gesù. Cosa ha compreso grazie alla bellezza?

La canzone ha quel ritornello programmatico, come un manifesto di intenti: «Noi cerchiamo la bellezza ovunque». Avevo bene in mente come un’attitudine simile sottenda un approccio generosamente ingenuo alla vita. Ho in simpatia l’ingenuità come caratteristica, approccio genuino. Tramite l’ingenuità si va verso l’altro con la curiosità di conoscerlo e accettarlo, non con il nervosismo della malizia, con il sospetto. Questa apertura verso l’altro sottende l’apertura verso il mondo. E, va da sé, verso la sua bellezza. Un’immagine affascinante che si può attribuire alla figura di Gesù è quella tramandata da Nick Cave in uno scritto: in un episodio del Vangelo Gesù riflette, e con un bastone traccia dei segni sulla terra. Per Nick Cave, Gesù in quel momento sta esercitando la sua immaginazione, e io non riesco a non tenere congiunti bellezza e immaginazione. Nella mia canzone la bellezza va cercata ovunque, sia nelle situazioni effettivamente belle che in quelle ritenute brutte, perché si può e si deve trovare la bellezza anche in esse. Coniugare bellezza e Gesù diventa a sua volta cosa bellissima e utile alla comprensione di Gesù.

Qualcuno le ha mai detto che «Ti Voglio Dire» potrebbe rappresentare nel Terzo Millennio ciò che ha significato «La Cura» di Franco Battiato nel secolo scorso? E cioè… consolazione?

No, nessuno, e l’ipotesi da lei formulata mi riempie di orgoglio. Fosse vero! Vorrebbe dire che la mia modesta canzone, per ora confinata nei sobborghi di quell’affettuoso underground che è il mio affezionatissimo pubblico, sarebbe in realtà conosciuta da gran parte degli italiani, come lo è «La Cura» di Battiato. Ma stiamo parlando di un pezzo veramente epocale, uno dei più belli della storia del cantautorato italiano. Restando però al solo significato dei due pezzi devo ammettere che soggiace a entrambi questo desiderio di porsi nei confronti dell’amico (o del proprio amore, o di un parente caro) con l’intento di consolarlo, di esserci veramente.

di Massimo Granieri