Paternità spirituale

Restaurare le anime

Nell’arte giapponese del “kintsugi” le porcellane infrante vengono riparate con l’oro per nobilitare le linee di frattura
24 febbraio 2021

«Ti piace proprio restaurare gli oggetti rovinati, vero?». La domanda di Paolo mi aveva colto di sorpresa, ma tutto sommato era un’osservazione ragionevole. Stavo ripulendo una lastra di vetro policromo da ricollocare nella cappella della Delegazione apostolica di Gerusalemme, evidentemente con un sorriso di soddisfazione e di beatitudine tale da suscitare la curiosità del capocantiere. E in effetti poteva sembrare bizzarro che un sacerdote, collaboratore locale del delegato apostolico in Gerusalemme, invece di svolgere il suo consueto lavoro di archivio, dedicasse del tempo a un’attività manuale di quel genere.

Il nunzio aveva ritenuto improcrastinabili alcuni lavori alla casa (decisamente modesta, per essere sede di una nunziatura, e qualche lavoretto era proprio necessario…), e così da un solaio polveroso era riemersa una cassa piena di materiale archeologico in pessime condizioni. Niente di straordinario, ma tutto sommato oggetti di discreto valore, come è facile trovarne in Terra Santa: vasellame e altre ceramiche ridotte in frammenti, tre ciotole piuttosto malconce, qualche lucerna, un paio di statuine, un po’ di tessere di mosaico… Sua Eccellenza mi aveva chiesto di risistemare quei reperti, come già avevo fatto per i materiali dell’archivio storico della sede, e io avevo accolto la sua richiesta con entusiasmo.

L’archeologia è una mia passione da sempre, anche se non ho mai avuto modo di approfondirla a dovere. Inoltre sono naturalmente dotato di una buona manualità — fin da ragazzo amavo il modellismo e lavoravo a bottega da un falegname — e il lavoro manuale mi piace non meno di quello intellettuale. Così ho iniziato a dedicare ogni giorno qualche ora a rimettere insieme quei frammenti, restaurando uno dopo l’altro tutti i reperti.

Paolo è un cristiano, ed è il capomastro dei lavori della casa. Quando ho iniziato a riparare i vasi, ridotti a schegge di coccio, gli avevo chiesto un po’ di gesso, che volevo miscelare a polvere di terracotta per saldare i frammenti e impastare i pezzi mancanti… Così aveva sbirciato la lenta ricostruzione dei diversi oggetti. Quando, terminato tutto il lavoro, mi ha visto alle prese anche con quella vetrata sporca e malridotta, la battuta deve essergli sgorgata dal cuore: «Ti piace proprio fare il restauratore, eh?». «In effetti, sì!», ho subito risposto. E poi ho soggiunto istintivamente, rimanendo sorpreso dalle mie stesse parole più che dalla sua legittima osservazione: «Sì…, perché è molto simile alla direzione spirituale!».

Non saprei dire da dove mi siano uscite quelle parole. E mentre con i miei rudimentali strumenti mi sforzavo di restituire quella vetrata al suo splendore nativo, ho iniziato a canterellare, come spesso mi accade quando sono serenamente concentrato, e a riflettere su quel paragone azzardato. E mi sono reso conto che è davvero così. Sono veramente tante le analogie fra il restaurare un oggetto antico e l’accompagnare spiritualmente una persona. Quanto avevo fatto a quei vasi di terracotta ridotti in frantumi non era molto diverso da quanto mi sforzo di fare quando ascolto qualcuno che viene a condividere con me il suo cammino spirituale. E più ci pensavo, più mi appariva evidente che la gioia provata nel vedere ricostruito un vaso frantumato non era molto diversa da quella che si sperimenta nel vedere rifiorire un’anima sbriciolata. Sì, questo paragone diventava illuminante anche per me. Per svolgere meglio il ministero della cura animarum.

Si restaura soltanto ciò che è prezioso. Per restaurare ci vuole tempo, e il tempo è denaro. Ma se si tratta di un oggetto prezioso, non lo si può buttare, e il tempo per aggiustarlo si trova. Ebbene: ogni anima è infinitamente preziosa. Anche quella più incerta, confusa, sbandata, peccatrice. «Perché — dice Dio — tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo…» (Is 43, 4). E il tempo per ripararla si deve trovare.

Si restaura ciò che è unico e non può essere sostituito. Una cosa vecchia si può buttar via e cambiare con un’altra: nell’attuale economia dell’obsolescenza programmata, questo è più vero che mai. Il restauratore invece si applica a far rivivere proprio quell’oggetto: perché è unico, e non può essere rimpiazzato da nessun altro. Se volesse, potrebbe facilmente plasmare un nuovo vaso simile a quello in frantumi, e forse gli costerebbe minor fatica. Il suo compito però non è sostituire il pezzo, ma salvarlo, benché così malridotto. Custodire e proteggere la sua irripetibilità. Allo stesso modo, ogni persona è unica e irripetibile: va rispettata nella sua individualità, e riconosciuta per quello che è. Il padre spirituale perciò non deve omologare, e meno che mai manipolare: è invece a servizio di ciascuno, rispettandone le caratteristiche proprie, perché a ciascuno Dio dà «un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (Ap 2, 17).

Si restaura ciò che ha una storia, ciò che è consumato dal tempo e che è segnato dal passato. Spesso nell’accompagnamento spirituale ci si trova davanti a persone ferite dagli eventi, trasformate da vicende più o meno dolorose, curvate dal peso della vita. È bellissimo svolgere il ministero di accompagnamento dei giovani e aiutarli a sbocciare alla vita. Ma spesso accade di accompagnare chi ha già i piedi stanchi, le rughe sul volto e un po’ di cicatrici sparse. Come il restauratore deve riconoscere e rispettare i segni del tempo sugli oggetti, così la guida spirituale deve rispettare i segni del tempo sulle persone. Nell’accompagnare, deve accogliere le biografie individuali, tesaurizzare le esperienze vissute e trasformarle in tracce dell’opera di Dio. Anche quando si tratta di cicatrici, come lo zoppicare di Giacobbe dopo la lotta con l’angelo allo Iabbok (cfr. Gen 32, 23-33).

Perciò, a differenza dell’estro creativo richiesto all’artigiano che costruisce ex novo, al restauratore è richiesto un profondo rispetto dell’esistente. Egli non lavora con materiale grezzo da progettare o modellare a suo capriccio. Deve invece riconoscere la curvatura naturale dei pezzi che ha davanti a sé e restituirli alla loro verità originaria. Così fa la buona guida spirituale: non ha la pretesa di orientare le persone a partire dai suoi gusti, o di determinarne il cammino in base alle predilezioni soggettive. Non è padrone della vita degli altri, ma a loro servizio. Non impone nulla, e spesso nemmeno propone. Semplicemente aiuta ogni persona a tirar fuori la verità di sé stessa, anzi a farla “diventare se stessa”. Perché la grazia non toglie la natura, ma la porta a compimento (Summa Theol. i, i, 8) e il cammino di una vocazione non si costruisce a tavolino, ma è risposta al progetto di Colui che «ci ha scelti prima della creazione del mondo» (Ef 1, 4).

Per restaurare un oggetto antico è richiesta un’attenzione completa e minuziosa. Ci si deve dedicare totalmente a quel che si fa, pienamente concentrati, avendo cura di raccogliere tutti i frammenti dispersi, per quanto insignificanti possano sembrare. Come nell’ascolto spirituale: non è consentita alcuna distrazione. Si deve essere presenti a sé stessi e ancor di più a chi sta aprendo il suo cuore. In un colloquio spirituale, ognuno dovrebbe sentirsi l’unica preoccupazione al mondo di chi lo sta ascoltando. «La persona più importante, per me, è quella con cui sto parlando», disse una volta santa Teresa di Calcutta. E neppure una briciola di quanto viene comunicato deve cadere. Come il giovane Samuele, che non «lasciò andare a vuoto una sola delle parole» rivoltegli dal Signore (cfr. 1 Sam 3, 19).

Ciò che si restaura è molto spesso fragile e va trattato con la massima delicatezza. Ogni frammento viene recuperato, e poi spolverato, ripulito, strofinato… ma sempre con molto garbo e profondo rispetto. Vorrei dire che ci vuole “tatto”: non di rado è proprio la sensibilità dei polpastrelli a farti capire come trattare quel frammento scheggiato e come rimetterlo in sesto senza danneggiarlo ulteriormente. A volte invece devi metterti i guanti, oppure servono delle pinzette: se tocchi con malagrazia, o con le mani sporche, rischi di rovinare tutto e fare un danno maggiore di prima. E cosa c’è di più delicato di un’anima? Non la si può trattare come un elefante in una cristalleria: si entra bussando, in punta di piedi e togliendosi i calzari, «perché il luogo sul quale tu stai è luogo santo» (Es 3, 5).

Il restauratore inizia l’impresa con l’incrollabile fiducia di poter rimettere insieme anche i cocci più rovinati e apparentemente inservibili. Dove altri obiettano con scetticismo: «ma cosa ti illudi di fare? non ne caverai fuori niente!», egli tenta l’azzardo e si mette a ricostruire. Perché ha esperienza di tanti piccoli miracoli: ha visto molte volte frammenti considerati senza futuro che riprendevano forma e divenivano oggetto di stupore e di ammirazione. Esattamente come il padre spirituale: sa per esperienza che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1, 37). Tante volte ha visto con i suoi occhi che «quanto è distrutto si ricostruisce, quanto è invecchiato si rinnova, e tutto ritorna alla sua integrità» (Colletta dopo la settima lettura della Veglia Pasquale).

Il lavoro di restauro esige un’infinita pazienza. Non si possono forzare le cose: occorre guardare i pezzi uno per uno, studiare come sono fatti, e scoprire lentamente in che modo una frattura può diventare una sutura. Ci vuole calma per scoprire gli incastri giusti. La brutalità è inutile, anzi controproducente. A volte passa molto tempo e non si combina nulla: le cose non vanno, e si affaccia il dubbio che stavolta non ci sia nulla da fare… Poi invece: tac! All’improvviso un pezzo combacia con l’altro, e poi un altro con quei due, e rapidamente tanti pezzi si compongono quasi magicamente. Li avevi davanti al naso, ma non riuscivi a vederli nel modo giusto. Poi scatta un non so che, e tutto si trasforma. Succede anche al padre spirituale: può capitare di aver l’impressione di girare a vuoto, di non trovare il bandolo della matassa, di non riuscire a dire le parole giuste per liberare un’anima impantanata nelle sue pastoie. Poi all’improvviso brilla il raggio della Luce divina, la scena si illumina, e in breve tempo si fanno passi da gigante. Ma quell’istante di grazia è sempre il frutto di un cammino lento e costante. L’accompagnamento spirituale — a differenza della confessione, che è perdono immediato e incondizionato — suppone un itinerario, un percorso regolare e una progressività di sviluppo. Questo è lo stile di Dio, che sapientemente e gradualmente porta a compimento i suoi «progetti meravigliosi, concepiti da lungo tempo, fedeli e stabili» (Is 25, 1).

In qualche circostanza il restauratore deve usare anche una certa energia ed esercitare una misurata pressione per rimettere in sesto tutti i frammenti. Gran parte del lavoro, infatti, consiste nel mettere insieme singoli pezzi, e questo si svolge sempre con la delicatezza già ricordata. Le saldature che progressivamente si effettuano, però, hanno spesso un che di imperfetto. Perciò quando arriva il momento di far combaciare un blocco di pezzi già assemblati con un altro blocco — ad esempio quando si giustappongono le due calotte di un insieme — occorre non solo molta prudenza, ma anche una certa forza. I punti di contatto fra le due metà sono molti, e senza un po’ di energia e di audacia non si riesce ad assestare il tutto. Però quando l’incastro finalmente riesce, è una grandissima soddisfazione. Questo mi ricorda le circostanze in cui il direttore spirituale capisce che è il momento di premere un po’ l’acceleratore e promuovere un progresso importante in un’anima. Non bisogna mai esagerare, né perdere la dolcezza, altrimenti si rischia di sfasciare tutto; ma è necessaria anche una certa determinazione. Al termine però, quando l’incastro è finalmente realizzato e l’insieme trova un nuovo equilibrio e una nuova solidità, la gioia è profondissima. Conservando l’umile consapevolezza che l’autore di quel progetto è il Padre, Cristo è la sua forma, e lo Spirito colui che l’ha plasmata. Tu non hai “costruito” nulla secondo un tuo progetto, ma hai soltanto aiutato a ritrovare la forma voluta dal Creatore. Perché «né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere» (1 Cor 3, 7).

Infine, e soprattutto: per metter mano ad un restauro bisogna anticipare con la mente e con il cuore l’integrità originaria e perduta. Bisogna intuire con gli occhi della fantasia il progetto creatore dell’artefice. Bisogna immaginarsi che cosa doveva essere ciò che adesso appare solo un cumulo di macerie. Il restauratore vede l’invisibile: intuisce quale può essere la forma gloriosa di ciò che ha tra le mani, nonostante questa forma sia clamorosamente smentita dalla realtà di sbriciolamento che si trova davanti. Proprio come un buon padre spirituale: non vede davanti a sé il peccatore sbandato, ma il figlio di Dio amato. Quando accoglie una persona affranta, distrutta dalle prove della vita, spenta e priva di ogni splendore… anche allora già intravede l’opera dello Spirito, il potenziale di vita nuova, l’aurora del rinnovamento. Scavando nel cuore di quella persona riconosce Dio silenziosamente all’opera e intuisce l’immagine divina che quella persona, pur senza rendersene conto, nasconde in sé. Perché tutti «veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18).

La saggezza dell’oriente si accompagna bene alla spiritualità cristiana. In Giappone è praticato il kintsugi, cioè l’arte di riparare con l’oro le porcellane infrante. Le linee di frattura, ricomposte, vengono così evidenziate e contemporaneamente nobilitate. Nulla è rotto definitivamente. Tutto può essere rimesso in sesto. Le ferite, divenute cicatrici, abbelliscono l’insieme, lo caratterizzano e lo rendono ancor più speciale. Come cantava Leonard Cohen, «There is a crack, a crack in everything. / That’s how the light gets in». Ogni cosa e ogni persona hanno delle crepe interiori; ma la Luce entra proprio da lì. Il padre spirituale è testimone di questo sorprendente spettacolo. La metafora del restauro, nonostante tutte queste analogie, ha però un tallone d’Achille. L’uomo nuovo non è «l’uomo vecchio restaurato»: è «una creatura nuova», anzi «nuova creazione» («kainé ktisis»: 2 Cor 5, 17). È l’uomo «creato da Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4, 24), frutto dell’azione dello Spirito Santo che ci plasma a immagine del Figlio e ci rigenera alla vera Vita. Bisogna «nascere di nuovo / dall’alto» (cfr. Gv 3, 3ss), e questo può compierlo solo la grazia di Dio. «Quel che è nato dalla carne è carne…» (Gv 3, 6), e nessuno sforzo umano potrà mai generare la vita soprannaturale. All’uomo però rimane il servizio preliminare dell’ascolto accogliente e della cura amorevole del fratello, che somigliano tanto ad un lavoro di restauro, e che predispongono all’accoglienza della grazia. Spesso è soltanto un ministero della consolazione, necessario però per preparare il terreno alla discesa di un altro Consolatore.

Utilizzando l’immagine del profeta Ezechiele, vorrei dire che è il servizio di «accostare le ossa aride l’uno all’altro», invocando lo Spirito affinché «venga dai quattro venti e soffi su di esse perché possano rivivere» (cfr. Ez 37, 7-10). Questo percorso non si identifica tout court con un semplice itinerario di maturazione umana, né sostituisce il lavoro terapeutico, pur preziosissimo e talvolta necessario per curare profonde ferite interiori. E tuttavia il restauro delle anime — l’accompagnamento spirituale — è un meraviglioso segno del Regno di Dio, perché «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti» (Sal 34, 19). Sì, grazie all’osservazione di Paolo capisco meglio perché amo tanto restaurare gli oggetti rovinati: perché mi ricorda la gioia di “restaurare le anime”. Uno dei doni più straordinari che Dio possa fare a una sua creatura.

di Filippo Morlacchi
Sacerdote fidei donum Gerusalemme