La meccanica quantistica secondo Rovelli e Labatut

È la relazionalità
la sola certezza

La copertina del libro di Benjamín Labatut
24 febbraio 2021

L’ultimo libro di Carlo Rovelli dedicato alla nascita della teoria dei quanti — Helgoland (Milano, Adelphi, 2020, pagine 219, euro 15) — è già giunto alla sua terza edizione. Agli appassionati di saggi di divulgazione scientifica che temono, troppo spesso a torto, di doversi confrontare con espressioni algebriche incomprensibili, la casa editrice fondata da Luciano Foà e da Roberto Olivetti propone adesso un altro libro su tale significativo passo della fisica contemporanea, Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut (Milano, Adelphi, 2021, pagina 180, euro 18). Queste due opere, alquanto diverse fra loro, si devono ritenere complementari, visti proprio i loro approcci radicalmente diversi. Letti in sequenza o ancor meglio in parallelo, i due saggi forniscono, a quanti sono disposti a compiere questo sforzo — non particolarmente arduo, visto che entrambi i libri sono divisi in capitoletti, che possono essere sfogliati separatamente e ripresi successivamente — una visione incisiva e coinvolgente della portata del progresso che la fisica compì nei primi decenni del secolo scorso.

Mentre Rovelli accompagna il lettore passo per passo in una brillante, concisa e precisa descrizione dei vari passaggi scientifici per poi evidenziarne la portata filosofica, Labatut lo trascina in un romanzo dal sapore trascendentale, da cui i protagonisti emergono come eroi fugaci di un’avventura dall’accuratezza storica inopinabile e al contempo dal sapore metafisico, nella quale il narrativo elegante sviscera la loro trasformazione esistenziale, sottoposta ai tormenti dovuti a esperienze personali traumatiche e agli sballottamenti derivanti dagli sconvolgimenti sociali associati alla prima guerra mondiale e all’avvento dei totalitarismi.

Certo, la formazione accademica dell’ordinario italiano di fisica teorica all’Università di Aix-Marsiglia, formatosi presso atenei prestigiosi come quelli di Padova e di Yale, ha poco a che vedere con la traiettoria inconsueta di un figlio di diplomatici, nato a Rotterdam e residente a Santiago del Cile, che iniziò la sua carriera di scrittore con romanzi di un genere difficilmente classificabile, quali Un verdor terrible, giustamente premiato per la sua eccentrica genialità, dall’Universidad Autónoma de México con il premio Caza de Letras 2009.

Ma è appunto questa dicotomia a fare dei due saggi un’accoppiata vincente, perché vede ognuno dei due lavori trovare nella sua controparte una sponda arricchente, che appare ancor più contundente delineando, per sommi capi, quali furono gli effetti rivoluzionari dell’affermazione della meccanica quantistica. A partire dal Seicento e fino alla fine dell’Ottocento, infatti, la fisica procedette speditamente, inquadrando uno dopo l’altro i segreti nell’universo in una concezione pressoché idilliaca. Che sia, per esempio, nelle scoperte di Marriott e di Boyle (sulla relazione fra la pressione, il volume e la temperatura) o in quelle di Newton e di Leibnitz (sulla forza, la velocità e l’accelerazione) o in quelle di Faraday e di Maxwell (sull’elettricità e il magnetismo), la fisica trovò, in espressioni matematiche assodate e rassicuranti, un sistema senza faglie per spiegare le interazioni della materia (legge dei gas perfetti, calcolo infinitesimale e principio della gravità universale, equazioni differenziali alle derivate parziali sull’interazione elettromagnetica…).

L’anellarsi di questi successi, oltre a riversarsi in progressi tecnologici tangibili che portarono alla trasformazione della società (le rivoluzioni industriali), portò con sé, a livello filosofico-esistenziale, un’insidiosa illusione: quella che la scienza avesse in mano gli strumenti perfetti per spiegare il reale, poiché quest’ultimo obbediva a leggi immutabili ed intelligibili. Magari senza cadere sempre nel determinismo assoluto, la fisica divenne il cavallo di battaglia di quelli che ritennero che, poiché il sapere (e il sapere con certezza), fosse raggiungibile, una visione del mondo dal sapore positivistico era da ritenersi giustificabile, per non dire, imprescindibile. Ma, agli inizi del Novecento, questo sogno venne, inaspettatamente, infranto.

Con la scoperta della struttura dell’atomo — un nucleo composto da protoni e neutroni intorno al quale gravitavano elettroni su orbite discontinue — e con l’identificazione delle interazioni fra le particelle elementari e le radiazioni elettromagnetiche — in casu, gli elettroni sfuggiti dagli atomi sui fotoni componenti la luce — diventò sempre più evidente che l’energia e la materia non fossero delle entità indipendenti e progressive, ma correlate e procedenti a salti, come se fossero composte da pacchetti indivisibili, dei quanta, per l’appunto. Sin dai suoi prodromi, la teoria dei quanti si rivelò straordinariamente innovativa e, mano a mano che si accumulavano osservazioni inspiegabili, gli scienziati si videro, poco a poco, obbligati a postulare possibilità sempre più sorprendenti. Fra queste, il fatto che il comportamento della materia stessa potesse essere descritto con delle equazioni ondulatorie e persino, che gli stati di energia e le posizioni spaziali delle particelle sembravano influenzarsi gli uni gli altri, a distanza nello spazio e persino, nel tempo.

Davanti all’impossibilità di usare la meccanica classica per decifrare questi fenomeni, Erwin Schrödinger (1887-1961) e Werner Heisenberg (1901-1976) svilupparono, il primo, la “meccanica ondulatoria” e il secondo, la “meccanica matriciale”. Quando questi due modelli si rivelarono riconducibili l’uno all’altro; si verificò una progressiva e inevitabile conferma da parte della comunità scientifica di due postulati della nascente “meccanica quantistica”: al suo livello elementare, la natura confondeva quello che, a livello macroscopico appariva in categorie separate — la materia e le onde — e i suoi elementi costitutivi erano intrappolati in un bizzarro groviglio relazionale — l’entanglement — che influenzava le loro interazioni spaziali e temporali. La natura, forza di concludere, non era quindi determinabile — il famoso principio di indeterminatezza di Heisenberg — né tanto meno, determinata — l’altrettanto famoso paradosso del gatto di Schrödinger.

Non a caso, al centro dei saggi di Rovelli e di Labatut, si trovano proprio questi due scienziati, che probabilmente non avrebbero raggiunto i loro obbiettivi se non fosse stato per un avvenimento drammatico che si produsse nell’estate del 1925, sull’arcipelago di Helgoland, situato a 70 km dalle coste del Schleswig-Holstein. In tale “terra sacra” (l’etimologia di Helgoland rimanda a tale significato), la fisica decise di intraprendere un cammino — al quale contribuirono tutti i luminari della fisica del ventesimo secolo: Bohr, Born, Dirac, De Broglie, Einstein, Pauli, Feynman, per citarne solo alcuni — di accettazione della paradossalità dei dati scientifici, condannando sé stessa ad essere scacciata da un eden pieno di fiducia serena e di tranquillità ingenua. Infatti, questa perdita dell’innocenza tradotta in termini metafisici (sia a livello epistemologico — l’universo è conoscibile per quello che è, veramente? — sia a livello ontologico, il mondo è quello che sembra, veramente?) mise fine a ogni velleità d’interpretazioni realistiche o idealistiche della natura, brillantemente quanto romanticamente riassunte, molti anni prima, da Friedrich Schelling: «Una teoria perfetta della natura sarebbe quella per cui la natura tutta si risolvesse in un’intelligenza».

Rovelli e Labatut sono quindi i compagni ideali non solo per ripercorrere — in modo analitico per quanto riguarda il primo, in modo drammatico per quanto riguarda il secondo — questo cambiamento epocale, ma anche per aprire — in modalità teorica per quanto riguarda il primo, in modalità lirica per quanto riguarda il secondo — nuovi scenari pieni d’umiltà e di meraviglia. La meccanica quantistica infatti, insegna a chi ha l’umiltà di accettare che le sicurezze marmoree derivanti da regole statiche hanno lasciato spazio all’incertezze dovute alle possibilità plasmabili di interazioni complesse, che forse vi è una soluzione al dibattito che ha tormentato l’umanità sin dai tempi del panta rhei di Eraclito e di Parmenide: quello del rapporto fra l’essere e il divenire.

Questa possibilità è ancor più intrigante in chiave antropologica: condizionati dai loro limiti, schiavi dei lori dubbi, intrappolati nelle loro contraddizioni, gli esseri umani sentono istintivamente che la dinamica imprevedibile delle loro relazioni è il motore principale del loro divenire e il senso ultimo del loro essere. Cosa sarebbe più meraviglioso di una natura sorprendentemente antropomorfa? Ad avere l’ultima parola, potrebbe essere, molto più prosaicamente e forse più brutalmente, l’intelligenza artificiale derivante dagli elaboratori elettronici quantistici attualmente in fase di sviluppo, che promettono capacità computazionali tanto stupefacenti quanto la teoria da cui essi sono derivati.

di Carlo Maria Polvani