L’infinita scia di sangue denunciata più volte dalla Chiesa locale

Ricchezza calpestata

 Ricchezza calpestata  QUO-044
23 febbraio 2021

Massacri pianificati, violenze, saccheggi e sequestri nell’impunità più totale sono all’ordine del giorno nel Nord Kivu, la regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo dove è stato ucciso lunedì 22 febbraio l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, insieme a Vittorio Iacovacci, il carabiniere che gli faceva da scorta, e all’autista congolese del World food programme (Wfp). Da decenni i vescovi e i religiosi locali non si stancano di denunciare il tentativo di “balcanizzazione” della zona da parte di forze straniere, per sfruttare le ricche risorse minerarie della zona e le fertili terre arabili.

«Da noi ogni giorno ci sono notizie di uccisioni, oramai a Butembo-Beni c’è sempre una carneficina, si muore come insetti», conferma padre Robert Kasereka Ngongi, sacerdote della diocesi locale, dove è avvenuto l’agguato. L’ambasciatore viaggiava su un’automobile dell’Onu. I sette membri dell’equipaggio sono stati vittime di una imboscata a Kibumba, a 15 chilometri da Goma. La strada su cui viaggiava il convoglio dell’ambasciatore italiano è molto pericolosa. Accadono di frequente fatti di sangue così gravi. «Di solito su quella strada rapiscono persone importanti e poi chiedono il riscatto», spiega padre Robert. «Forse hanno visto un bianco e hanno pensato che sarebbe stato un modo per avere dei soldi». Dal 2012 ad oggi oltre ottocento persone sono state sequestrate. Altri due sacerdoti della diocesi di Butembo-Beni, don Charles Kipasa e don Jean-Pierre Akilimali, sono dal 2017 nelle mani dei rapitori e non si sa se sono vivi o morti.

Nel 2012 sono stati rapiti tre preti della Congregazione degli assunzionisti: padre Anselme Wasukundi, Edmond Bamtupe Kisughu e Jean-Pierre Nndulani. Nemmeno di loro si hanno più notizie. Un confratello, padre Vincent Machozi, è stato barbaramente ucciso il 20 marzo 2016 mentre era in visita dalla madre nel villaggio di Vulambo.

Sono decenni che in queste regioni nord-orientali della Repubblica Democratica del Congo violenze atroci e instabilità sono portate avanti da feroci milizie, probabilmente al soldo di potenze straniere, che si contendono le ricchezze naturali della zona. Coltan, oro e diamanti prima di tutto. E le terre fertili dove si coltiva caffè e cacao, le foreste dove vivono i gorilla di montagna, usate per produrre carbone. Eppure se ne parla solo quando vengono coinvolti degli occidentali. «Dalla guerra in Rwanda nel 1994, con i tanti rifugiati arrivati nel Nord Kivu, la situazione è sempre la stessa: uccisioni, rapimenti, incendi a case e villaggi, violenze alle donne», dice padre Robert. Il sacerdote lamenta che, nonostante la presenza delle forze della Monusco, non si riesce ad intervenire prima per evitare gli assalti e le violenze. Inoltre, «tra esercito e gruppi armati c’è molta complicità. A volte negli accampamenti dei soldati viene trovato ciò che è stato saccheggiato nei villaggi». Spesso gli assassini mandano in giro le foto delle stragi per far vedere a che livello di crudeltà sono capaci di arrivare», racconta. «Le persone si spaventano e scappano». Dal 2014 tra Beni e Lubero sono state uccise 2.700 persone. Nessuna indagine è stata portata avanti e nessun colpevole è stato punito. Secondo il sacerdote almeno cinquecentomila abitanti di Butembo e Beni, in maggioranza appartenenti all’etnia nande, sono fuggiti, rifugiandosi in altre città, a casa di amici e familiari. Al posto della popolazione autoctona ora ci sono molti rwandesi.

Una sorta di far west alla conquiste di terre e risorse. Le materie prime vanno all’estero (il coltan nei nostri telefonini) e la popolazione locale viene sfruttata nelle miniere, dove lavora in condizioni disumane. Eppure c’è chi trae grande vantaggio economico dalla situazione: «Usano i gruppi armati per controllare le miniere, fanno lavorare la nostra gente come schiavi, poi tutto va fuori dal Paese. La violenza e la criminalità sono considerati degli effetti collaterali».

Il vescovo della diocesi di Butembo-Beni, Melchisedech Sikuli Paluku, non si stanca di denunciare la situazione e chiedere giustizia. Il suo sacerdote ripete oggi l’appello: «Servono indagini serie e indipendenti». La stessa richiesta che le autorità italiane hanno fatto in questi giorni al governo dello Stato africano per appurare la verità sulla morte dell’ambasciatore Attanasio, del carabiniere Iacovacci e delle altre persone coinvolte.

di Patrizia Caiffa