I presuli del Paraguay dopo la rivolta dei detenuti scoppiata nel carcere di Tacumbú

Occorre una visione
più umana e umanizzante

 Occorre una visione più umana e umanizzante  QUO-044
23 febbraio 2021

La recente violenta rivolta nel carcere di Tacumbú, che ha causato la morte di sette persone e molti feriti, «ci mostra, ancora una volta, le terribili condizioni in cui si trovano le nostre carceri e l’intero sistema carcerario paraguaiano»: è quanto si legge in una dichiarazione della Conferenza episcopale del Paraguay, in seguito ai sanguinosi disordini avvenuti nei giorni scorsi nel penitenziario di Tacumbú, il più grande del Paese, con circa 4.100 detenuti, il doppio della capienza prevista. Centinaia di carcerati, armati di coltello, hanno scatenato caos per 24 ore prendendo il controllo di uno dei padiglioni della prigione, dove c’erano otto guardie. Le forze antisommossa hanno ripreso il controllo dell’istituto di pena, ma la rivolta ha causato almeno sette morti.

Il ministro della giustizia, Cecilia Pérez ha assicurato che «non si tratta di uno scontro tra clan», dopo che alcuni media locali avevano fatto accenno ad una lite tra detenuti della mafia paraguaiana. Secondo il governo di Asunción, la rivolta sarebbe iniziata in seguito al trasferimento di un detenuto affiliato a un clan che distribuiva droga all’interno della prigione.

L’episcopato non nasconde la propria amarezza e preoccupazione per quanto accaduto e per le difficili condizioni nelle quali vivono migliaia di detenuti nel Paese sudamericano. «I fatti mostrano che non serve una super-struttura dove confinare le persone che hanno conti pendenti con la giustizia, se nelle carceri continua a regna-re un’elevata corruzione e se non viene attuata una profonda riforma carceraria. Ci rammarichiamo — aggiungono i vescovi — per la mancanza di azione e di una gestione efficace e corretta per ridurre la popolazione carceraria in attesa di giudizio per evitare il sovraffollamento, che nuoce ai diritti fondamentali di ogni persona umana. Siamo anche preoccupati per l’estrema violenza con cui agiscono i gruppi criminali che ricattano le autorità nazionali e hanno il controllo sulla popolazione carceraria. Sono sempre più numerosi e violenti». Le rivolte nelle carceri non sono una novità. Purtroppo, si susseguono quasi con triste regolarità in molti Paesi del mondo, testimoniando problemi di sopravvivenza e di dignità umana in questi ambienti spesso segnati dal degrado. Problemi aggravati, nell’ultimo anno, dalle restrizioni provocate dalla pandemia

La prigione di Tacumbú, per esempio, ospita il doppio dei detenuti rispetto alla capienza. Per diverso tempo gli istituti di pena del Paese di fatto sono stati a lungo “governati” dalle mafie o dalla corruzione, alcune prigioni sono dominate da vari gruppi malavitosi. Sia i clan che le mafie sono cresciute e si sono rafforzate nelle carceri paraguaiane a causa delle pessime condizioni in cui vivono i detenuti, con un livello molto alto di sovraffollamento, la mancanza di accesso adeguato ai servizi sanitari, alimentari e anche igienici. Per questa ragione i presuli paraguaiani hanno lanciato l’ennesimo appello esortando il governo nazionale, la magistratura e il parlamento a «raddoppiare i loro sforzi e a maturare una visione molto più umana e umanizzante a favore delle persone private della libertà che meritano veramente una seconda possibilità». Cosa che, sottolineano i vescovi, «dopo tutto, è un vantaggio per tutta la popolazione».

Nella dichiarazione, inoltre, l’episcopato sottolinea come Papa Francesco non perda mai l’occasione di visitare carceri e persone private della loro libertà, esprimendo solidarietà e dedicando parole di conforto. E facendo riferimento alla visita del Santo Padre, prima presso l’istituto di correzione di Curran-Fromhold a Philadelphia, negli Stati Uniti, (27 settembre 2015), e successivamente in Paraguay, l’episcopato ha ricordato che in quell’occasione il Papa li ha esortati a tornare sulle strade, alla vita. Il Santo Padre «vuole — concludono i presuli — che questo tempo di reclusione non sia sinonimo di espulsione».

di Francesco Ricupero