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PERSONE FRAGILI

Il vicino invisibile

 Il vicino invisibile  QUO-044
23 febbraio 2021

Due storie di barbonismo domestico
Realtà al centro di un progetto della Caritas dal 2018


Roma
Stazione Termini


Aldo, 69 anni, vive in una casa di edilizia popolare dal 1974. L’appartamento non ha porte, ha i muri e il soffitto scrostato e un bagno senza doccia e completamente da rifare. La cucina non esiste, non c’è l’acqua calda e neanche il riscaldamento. Aldo è invalido sin dall’infanzia ed è celibe. Fino a un anno fa, lavorava come portiere in categoria protetta presso un ministero. Ora è in pensione ma ancora non percepisce l’assegno per lungaggini burocratiche.

Aldo non lo sa ma rientra nella categoria dei cosiddetti barboni domestici, persone che vivono in una condizione di forte fragilità fisica e materiale pur avendo un tetto sopra la testa. Anzi, il fatto di avere una casa le rende ancora più invisibili rispetto a chi vive sulla strada, perché nascoste agli sguardi altrui dalle quattro mura.

L’isolamento sociale e l’abbandono della cura di sé e degli spazi in cui si vive sono gli elementi distintivi del barbonismo domestico, che ha una particolare caratteristica: l’accumulo degli oggetti più disparati, panni e stoviglie sporchi, residui di cibo, imballaggi alimentari, ecc., che trasformano le abitazioni in vere e proprie discariche. Come se le cose riempissero il vuoto della solitudine. A volte, invece che oggetti, possono essere animali domestici (tipico è il caso di alcune “gattare”) rendendo ancor più precarie le proprie condizioni igieniche e di salute.

Non esistono stime del fenomeno che è, per lo più, sommerso, ma si ritiene che le persone interessate siano un numero consistente. Per questo, l’amministrazione comunale ha messo a bando un «Servizio di contrasto alle forme di esclusione e isolamento sociale» che si è aggiudicato la Caritas di Roma. Il progetto, attivo da aprile 2018, prevede interventi a domicilio da parte di educatori, operatori socio-sanitari e assistenti sociali e garantisce percorsi individuali di cura e reinserimento. Il bando del comune prevede un numero massimo di 133 utenti in contemporanea in tutto il territorio di Roma capitale ma sono oltre 300 le persone con cui la Caritas è venuta in contatto in questo periodo. Per lo più anziani, con una leggera prevalenza maschile, non necessariamente poveri.

«Il fenomeno è trasversale», spiega Massimo Pasquo, responsabile del servizio. «I cosiddetti barboni domestici esistono in periferia come nei quartieri “alti”. Sono persone senza risorse ma anche ingegneri, funzionari, professionisti in pensione oppure ancora attivi. Ciò che li accomuna è la solitudine, la mancanza di relazioni interpersonali. A un certo punto della loro vita succede qualcosa che li mette in difficoltà: la perdita del lavoro, una crisi familiare, un lutto, e c’è il crollo. Se non c’è nessuno intorno, avviene un ritiro progressivo nel proprio guscio e una difficoltà crescente a venirne fuori».

Diverse sono le attività dell’équipe multidisciplinare della Caritas: pulizia e sanificazione dell’ambiente, piccole commissioni esterne, disbrigo di pratiche burocratiche, compagnia, ecc. «Ma ciò che più conta è il lavoro di tessitura di reti solidali nel territorio in cui dimorano le persone, senza il quale il percorso di reinserimento e risocializzazione non potrebbe verificarsi», continua Pasquo. «Bisogna tornare a praticare l’arte dell’ascolto, dell’attenzione, della cura. Un tempo era comune occuparsi del vicino di casa, di chi era prossimo. Oggi, invece, non siamo più comunità ma alveari. C’è bisogno di ricostruire una nuova normalità. Per questo, un ruolo importante lo ricoprono le parrocchie e le associazioni di volontariato».

«Una volta la gente era più semplice. C’era più relazione tra le persone», concorda Aldo, nella cui casa, tre anni fa, gli operatori della Caritas hanno trovato una situazione allarmante: immondizia ovunque, cibi scaduti e centinaia di bottiglie vuote di alcolici. Aldo, infatti, già da quando viveva con la mamma ha ospitato un familiare che beveva e che ha contribuito ad aggravare le condizioni igieniche dell’appartamento. Supportato dagli educatori, due anni fa è riuscito a mandarlo via. «Ho cominciato a pijallo de petto, ho cambiato la serratura e finalmente se n’è andato. Mejo una cambiale in protesto», racconta. Ma c’era ancora molto lavoro da fare. Bollette da pagare, abbonamenti superflui da disdire, riorganizzazione e pulizia degli spazi.

Con gli operatori collabora un giovane inquilino del palazzo. «Lo conosco da quando è nato. Mi aiuta. L’altro giorno mi ha portato le lasagne», dice Aldo che, a febbraio, dovrebbe finalmente cominciare a ricevere regolarmente la pensione. «Ora sono più tranquillo. Non voglio andare in una casa di riposo. Voglio rimanere qui».

Roma
Quartiere Pietralata


Il cancello d’entrata apre su quello che un tempo era un giardino rigoglioso in fondo al quale c’è una casetta umida e buia.

Anna, 59 anni, vive qui da sempre, prima con i genitori e da venti anni completamente sola. Non ha acqua corrente. Non ha neanche l’elettricità. Non ha radio né un telefono. Non ha nessun dispositivo tecnologico che la metta in contatto con il mondo.

Anna, che non si è mai sposata e non ha mai lavorato, vive in un’altra dimensione. Quella del passato, quando c’erano ancora la mamma e il papà e si mangiavano le uova fresche di giornata e i grappoli d’uva all’inizio dell’autunno. Un tempo, qui, era come stare in campagna. Si coltivavano gli ortaggi nell’orto e la domenica si pranzava nel giardino. Ora tutto questo non c’è più. La mamma e il papà se ne sono andati, i tralci di vite sono rinsecchiti e il recinto delle galline è divelto e arrugginito.

Pensa al passato, Anna, e sono subito lacrime. «Era bello sì, i miei genitori mi volevano bene. Ma era anche brutto. Ho sofferto da piccola e soffro da grande», dice, e nasconde il viso nel giaccone nero, che indossa anche dentro casa per difendersi dal gelo che l’avvolge. La donna ha un problema alla gamba che ha comportato vari ricoveri in ospedale ma non ne vuole parlare.

Quando sono arrivati gli operatori della Caritas il giardino era una foresta e in casa non si poteva entrare, piena di roba com’era. Ora è ordinata ma in condizioni precarie. C’è da rifarla interamente. Anna non chiede, non grida, non protesta, non rivendica qualcosa che non ha mai avuto. Semplicemente si affida. Agli operatori della Caritas, alla volontaria della parrocchia del quartiere e a un vicino gentile che, quando può, le dà un po’ di legna per il piccolo camino.

Non ha sogni, Anna, non se li può permettere. «Speranze? Non so, non ci ho pensato». Vorrebbe andare via da qui ma in una casa da sola però, non le va di condividere gli spazi. Poi l’operatore le ricorda i giorni in cui la Caritas l’ha ospitata nella casa famiglia di Villa Glori e il viso le si illumina. Era in stanza con un’altra signora però è stata davvero bene. Passeggiava nel parco, mangiava con gli altri ospiti, chiacchierava. Le volevano tutti bene, lei così mite e discreta. Una soluzione del genere, magari… Anna annuisce impercettibilmente, abbassa gli occhi e sorride dolcemente.

di Marina Piccone