Che cosa insegna la sua testimonianza

Guardare la realtà scoprendo
frammenti di bellezza
e di speranza

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22 febbraio 2021

Si può attraversare l’abisso di orrore e di male dei campi di sterminio nazista e raccontarne tutta la cruda realtà riuscendo a cogliere anche in quelle tremende circostanze frammenti di umanità e di speranza.

È lo sguardo che emerge dalla testimonianza di Edith Bruck, ottantottenne scrittrice e poetessa ebrea di origini ungheresi sopravvissuta alla Shoah, che sabato scorso, in un pomeriggio romano quasi primaverile, ha ricevuto nella propria abitazione la visita di Francesco. A muovere il Papa è stata la lettura dell’intervista con la scrittrice pubblicata da «L’Osservatore Romano» in occasione della Giornata della Memoria. Edith Bruck ha dedicato tutta la sua vita a testimoniare quanto ha visto. Furono due sconosciuti, di cui raccolse l’ultima voce nel campo di concentramento di Bergen–Belsen, a supplicarla di farlo: «Racconta, non ti crederanno, ma se tu sopravvivi racconta, anche per noi». Lei ha tenuto fede alla promessa. Ciò che colpisce, nel leggere gli episodi descritti nell’intervista, è lo sguardo di speranza che Edith riesce a trasmettere. Nonostante ciò di cui è stata testimone da bambina nei campi di sterminio nazisti, dove sono stati uccisi il papà, la mamma e un fratello.

Anche quando racconta dei momenti più bui non manca mai di fissare il suo sguardo su un particolare bello, su un accenno di umanità che le ha permesso di continuare a vivere e a sperare. Così, nel descrivere la vita del ghetto dopo essere stata strappata insieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli dalla casa nel villaggio rurale dove viveva, ecco che racconta di un uomo non ebreo che regala un carro di viveri per aiutare i perseguitati. Quando era costretta a lavorare nel lager di Dachau per scavare trincee, eccola ricordare un soldato tedesco che le lanciava la sua gavetta da lavare, «ma al fondo aveva lasciato della marmellata per me». Mentre descrive il suo lavoro nelle cucine per gli ufficiali ecco spuntare la figura del cuoco che le aveva chiesto come si chiamasse e all’udire la risposta, pronunciata da Edith con voce tremante, aveva risposto: «Ho una bambina della tua età». Detto questo, «tirò fuori dalla tasca un pettinino e guardando la mia testa con i capelli appena appena ricresciuti me lo regalò. Fu la sensazione di trovarmi davanti dopo tanto tempo un essere umano. Mi commosse quel gesto che era vita, speranza».

Un residuo di marmellata, un pettinino donato di nascosto, lo sguardo della sorella internata come lei, che le ha permesso di aggrapparsi alla vita nonostante tutto. Bastano pochi gesti per salvare il mondo, ripete Edith Bruck, consegnandoci un compito attraverso la sua testimonianza. Quello della memoria, innanzitutto, per far sì che simili orrori mai più si ripetano. Ma anche quello di saper fissare il nostro sguardo sui frammenti di bellezza e di umanità che ci circondano, e che confortano il cuore anche quando attraversiamo i deserti più aridi e le situazioni più difficili.

Di questo sguardo c’è davvero bisogno anche nella comunicazione, come ha scritto Papa Francesco nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 2017: «Vorrei che tutti cercassimo di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure o l’impressione che al male non si possa porre limite». Uno sguardo che anche il patrono dei giornalisti, san Francesco di Sales, indicava come via da seguire: «Se un’azione avesse cento aspetti, tu ferma sempre la tua attenzione al più bello».

di Andrea Tornielli