In un libro del teologo Brunetto Salvarani

Le religioni e l’aldilà

Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, «I funerali di Atala» (1808)
20 febbraio 2021

Un effetto non voluto ma certamente presente dell’attuale pandemia è l’aver costretto una significativa parte dell’umanità, sopratutto occidentale, a fare i conti con l’esperienza del morire. La morte infatti, pur essendo con la nascita la realtà più certa per ogni uomo nell’Occidente multimediale e consumistico, è stata da diverso tempo censurata e come rimossa, in nome di quell’ideologia che celebra superficialmente la vita come se l’uomo fosse privo di limiti e capace, grazie alle magie della scienza e della tecnologia, di prolungare sine die la sua esistenza terrena. La pandemia con il suo tragico lascito di morti ha risvegliato brutalmente da questa sorta di sonno dogmatico. Emblematiche sono le immagini degli autocarri militari che trasportano le salme delle province più colpite nella prima ondata. Tutto ciò, oltre a elementi positivi come la riscoperta della solidarietà o l’eroismo di alcuni accanto alla meschinità di altri, ha generato un rinnovato interesse per le questioni dell’aldilà, alla ricerca del senso del morire e del vivere su cui forzatamente ci si era imposti di non pensare. Giunge per questo opportuno l’ultimo lavoro del teologo Brunetto Salvarani, docente di Missiologia e teologia del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, Dopo. Le religioni e l’aldilà (Bari, Laterza, 2020, pagine 198, euro 18). Il testo si presenta come un vero e proprio manuale, preciso, documentato e attento alla fruibilità da parte anche di lettori non specializzati, per descrivere come le grandi religioni, con particolare attenzione al cristianesimo, intendano il morire, il giudizio e la vita nell’aldilà. Si colma così un vuoto di consapevolezza che accomuna laici e credenti, spesso ignari o dubbiosi sulle sorti che attendono ciascuno nella vita futura.

L’autore ad esempio riporta il fatto che «guardando a diverse analisi sociologiche degli ultimi anni dedicate a misurare la temperatura della fede dei cattolici italiani (operazione complessa ma tant’è), ciò che emerge è che, mentre la maggior parte dei nostri connazionali crede genericamente in Dio, neppure un quinto di essi confida nella risurrezione della carne». Per contro l’unica teologia che ha tenuto banco, se così si può dire, sui giornali e non solo è stata di coloro «che hanno inteso discettare dei novissimi per proclamare in maniera blasfema, che quanto ci stava accadendo era un castigo divino figlio del peccato umano, delle sue deviazioni morali sopratutto in ambito sessuale, tacendo invece delle nostre enormi responsabilità in campo economico ed ecologico».

Per questi motivi, l’autore si muove su due direttrici di fondo. C’è da un lato l’intento di far conoscere come il rapporto con l’aldilà sia costitutivo dell’umanità di tutte le epoche. Questa è l’esperienza elaborata nelle diverse tradizioni religiose, come quelle dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India così come nell’islam e nel cristianesimo letto nel suo rapporto organico con l’ebraismo. La seconda attenzione è il mettere in luce la rilevanza antropologica di questi temi su cui si fonda in definitiva la speranza di dare un senso pieno alla propria esistenza già ora e non solo dopo. Illuminanti, per dare solo un esempio, sono le pagine dedicate a ricostruire come nella visione delle prime comunità cristiane, testimoniate dall’epistolario paolino e dai vangeli, viene presentata la morte e la vita eterna a cominciare dall’esperienza vissuta da Gesù, poi estesa ai suoi discepoli.

La scelta di Gesù di accettare una morte violenta non è stata un caso o un incidente di percorso e nemmeno l’esaltazione del valore in sé salvifico del dolore e della sofferenza, ma al contrario come compimento di una vita spesa per il servizio dell’annuncio e del regno. Così, citando Xavier Léon-Doufur, Salvarani afferma che «Gesù non ha mai desiderato la morte come si ricerca un mezzo per raggiungere uno scopo importante: ha invece perseguito con semplicità ma con tenacia la proclamazione della Buona Novella, addirittura a prezzo della vita». Contro le immagini di un Gesù amante del dolore, in piena consonanza con la sua ebraicità, il Figlio come il Padre viene presentato «amante della vita» (Sapienza, 11, 26) anche di fronte al suo morire. La salvezza dalla morte di cui parla il cristianesimo non significa saltare l’esperienza della fine, ma innescare in essa il germe del suo superamento attraverso l’amore. Per questo motivo, i cristiani sulla scia del loro maestro, pur sentendo tutta la fatica del morire, sono stati definiti già dai padri della Chiesa come «coloro che non hanno paura della morte (aphoberoi thanàtou)».

di Marco Tibaldi