Sulla strutturale ambiguità dell’immaginazione

Follia e creatività

Vincent van Gogh  «Il campo di grano con volo di corvi» (1890)
20 febbraio 2021

Pubblichiamo alcuni stralci da uno dei saggi in uscita su «La Civiltà Cattolica».

«Il pazzo, l’innamorato e il poeta sono fatti tutti d’immaginazione». Questa celebre frase del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare è anche una sorta di autodiagnosi sul possibile rapporto tra follia e creatività artistica. Un rapporto che mostra anche la strutturale ambiguità dell’immaginazione, in bilico tra questi due esiti, che non di rado si trovano a convivere. La creatività, specialmente se si considerano le sue molteplici realizzazioni, sembra a prima vista antitetica alla follia: pur nel mistero del suo apparire, per portare frutto richiede conoscenza, tecnica espressiva, padronanza del linguaggio, costanza, anche una forma di ascesi e sacrificio, tutti aspetti che nella follia sembrano dissolversi.

Eppure la tendenza ad associare follia a creatività è presente dai tempi più antichi. La maggior parte dei poemi greci sono dedicati a Dioniso (il dio dell’ebbrezza impulsiva e irrazionale). Platone vede l’origine della poesia e della filosofia in «un tipo di invasamento e di mania che proviene dalle Muse [...]. Chi giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere buon poeta in conseguenza dell’arte, resta incompleto». Ad Aristotele è attribuito il detto: «Non è mai esistito ingegno senza un poco di pazzia». L’associazione diviene sempre più frequente in ambito romantico, ma è poi oggetto di specifiche indagini a partire dal secolo xx , allorché la psicologia e la psichiatria iniziano a studiare le caratteristiche delle persone creative.

Quando la vita degli artisti è diventata oggetto di analisi psichiatrica si sono notate alcune tendenze di fondo che si ripresentano costantemente. Adele Juda, dopo 17 anni di indagini, pubblica nel 1949 una ricerca su un campione di 294 artisti (scrittori, pittori, scultori, musicisti) di area tedesca (Germania e Svizzera) e sulle loro famiglie, per un totale di 5.000 soggetti. Pur essendo carente dal punto di vista metodologico (si confondono disturbi di tipo diverso, come la schizofrenia, la mania e la depressione, anche per la mancanza di adeguati criteri diagnostici, dal momento che il primo manuale sui disturbi mentali [il cosiddetto « dsm »] viene pubblicato nel 1952), questa ricerca è comunque degna di nota, soprattutto per il suo carattere pionieristico. Sebbene non giunga a stabilire una relazione diretta tra genialità e follia, lo studio rileva un’alta percentuale di squilibrio psichico tra i poeti (50%), i musicisti (38%), i pittori (20%), gli scienziati (19%), dati tutti estremamente elevati, se paragonati alla media della popolazione (10%). Juda nota che anche tra i familiari esiste un’alta probabilità di contrarre malattie psichiche (mania, depressione, suicidio). A questo studio ne seguirono in breve altri, sempre più dettagliati e precisi, con risultati molto simili.

Kay R. Jamison, una delle massime esperte del disturbo bipolare, ha indagato la vicenda di 36 scrittori di lingua inglese (appartenenti al Regno Unito e all’Irlanda) nel corso del xviii secolo. Nell’impossibilità di un incontro diretto con i soggetti, la Jamison ne ha analizzato le biografie e le anamnesi ospedaliere. Da questi dati ha concluso che la maggior parte di loro conobbe vicende tragiche: due terminarono i loro giorni in manicomio, altri due con il suicidio, più del 50% evidenziarono disturbi dell’umore con tratti psicotici (deliri, bipolarismo, stati maniacali, depressione) e il tasso di ricoveri coatti risulta essere 20 volte superiore alla media. Anche le famiglie di provenienza mostravano una percentuale molto alta di ricoveri psichiatrici e disturbi mentali, fino al suicidio: «Essere un poeta nella Gran Bretagna del diciottesimo secolo costituiva un rischio di disordini bipolari 10-30 volte maggiori rispetto alla media nazionale».

Conclusioni simili emergono da una ricerca su 47 artisti viventi: il 38% di essi era ricorso a cure per disturbi affettivi, il 30% aveva assunto psicofarmaci o era stato ricoverato. Tra le categorie più a rischio figurano i poeti (55%) e i drammaturghi (63%); più bassa invece risultava la percentuale per scrittori di romanzi e biografie (20%), un dato, quest’ultimo, comunque molto alto, se paragonato alla media nazionale dei disturbi mentali e dell’umore (6%), una cifra che scende ulteriormente se ci si limita ai ricoveri o al trattamento farmacologico.

Considerata l’incidenza dei disturbi mentali in queste categorie professionali, alcuni ricercatori hanno attuato una validazione incrociata, mettendo a confronto gli artisti con persone scelte a caso, che non svolgevano professioni creative (il cosiddetto «gruppo di controllo»). In uno studio condotto dall’équipe dell’università dello Iowa, coordinata da Nancy Andreasen, su 30 artisti viventi e un corrispettivo gruppo di controllo, emerge nuovamente l’alto numero di familiarità psichiatrica degli scrittori (80%) rispetto al gruppo di controllo, anch’esso piuttosto alto (30%).

Risultati simili provengono da un’indagine ad ampio raggio sulle famiglie di pazienti svedesi con disturbi psichiatrici: «Gli individui con disturbo bipolare e i fratelli sani di persone con schizofrenia o disturbo bipolare erano sovrarappresentati nelle professioni creative». Lo studio suggerisce anche una specifica correlazione tra schizofrenia, disturbo bipolare e creatività. L’alta proporzione dei disturbi psichiatrici tra i poeti viene riscontrata anche da una ricerca su 291 personaggi illustri (artisti visivi e scrittori creativi), il 90% dei quali veniva classificato come «paziente psichiatrico», in particolare in riferimento alla depressione e all’alcolismo.

Ma lo studio più ampio e dettagliato sul tema si deve a Arnold Ludwig, autore del libro The Price of Greatness (“Il prezzo della grandezza”), pubblicato nel 1995. Per 10 anni Ludwig ha analizzato le vicende di vita di più di 1.000 artisti illustri o di persone che hanno svolto professioni creative (architetti, musicisti, compositori, attori, registi, saggisti, scrittori di narrativa e poeti) e sono stati menzionati per meriti in questo campo nel New York Times Book Review dal 1960 al 1990. L’ampiezza della ricerca, estesa ai familiari (arrivando a comprendere 2.200 biografie), è tuttavia inficiata dall’assenza di gruppi di controllo. Le conclusioni non sono comunque differenti da quanto già rivelato.

Ludwig ha individuato problemi di carattere psichiatrico (alcolismo, uso di sostanze, depressione, mania, psicosi, ansia, tentativi di suicidio, disturbi mentali, cure psichiatriche e ospedalizzazioni) nel 59% delle celebrità esaminate. Quelli con il tasso più alto di psico-patologia sono i poeti (87%), seguiti da romanzieri (77%), drammaturghi (74%), artisti (pittori, scultori: 73%), saggisti (72%), musicisti (68%), operatori nel mondo della finanza (49%). Al gradino più basso figurano esploratori e scienziati (27%). Il ricovero ospedaliero per le professioni artistiche era 6-7 volte maggiore rispetto alle altre professioni, mentre l’uso di droghe e alcol era 2-3 volte superiore. Il 18% dei poeti era morto suicida. Lo studio ha anche il pregio di prendere in considerazione la fenomenologia di un preciso disturbo psichiatrico, la schizofrenia, presente in prevalenza nelle professioni creative (7%), soprattutto nei poeti (17%), nei compositori (10%) e negli scrittori (7-8%).

Al termine di questa rassegna, se proviamo a elencare gli artisti oggetto di disturbi psichiatrici, ritroviamo praticamente i più grandi rappresentanti di ogni campo: dalla poesia (Baudelaire, Byron, Coleridge, Eliot, Hölderlin, Keats, Ezra Pound ecc.) alla prosa (Conrad, Dickens, Dostoevskij, Faulkner, Gogol, Hemingway, Hesse, Hugo, Joyce, Kafka, Kant, Rousseau, Proust, Woolf ecc.), alla musica (Schumann, Beethoven, Rossini, Chopin, Rachmaninov, Händel), pittura e scultura (Cézanne, Kandinskij, Michelangelo, Picasso, Pollock, van Gogh ecc.). Oltre al numero, colpisce la grandezza e l’indubbia genialità degli appartenenti al gruppo dei «malati»: «È difficile non giungere alla conclusione che la maggior parte delle regole della cultura occidentale è stata prodotta da persone con un tocco di follia». (...)

Tutti gli studi riferiti notano una correlazione, difficilmente precisabile, tra questi due ambiti. C’è un legame misterioso, ma reale, tra creatività e sofferenza psichiatrica. Heinrich Heine, anch’egli segnato a lungo dalla depressione e da una malattia psicosomatica che lo costrinse a trascorrere a letto gli ultimi anni della sua vita, definiva la poesia «la malattia dell’uomo, così come la perla è la malattia dell’ostrica».

Se gran parte dell’edificio della cultura occidentale sembra essere opera di persone mentalmente disturbate, andrebbe anche ridiscussa la considerazione della salute mentale in termini di efficienza, propria della politica di «pulizia genetica» (propagandata dal nazismo e oggi ampiamente praticata dagli aborti selettivi), che vorrebbe eliminare chi è affetto da malattie mentali, perché considerato un parassita o un peso per la società. Oltre agli interrogativi su chi abbia ricevuto il potere di decidere della vita e della morte, sorgono anche timori su quale possa essere una società composta solamente da persone geneticamente selezionate: «Siamo davvero sicuri che possa considerarsi migliore una società composta da esseri umani geneticamente perfetti, in cui non ci sia più bisogno di sperimentare alcun sentimento di amore, di carità, di solidarietà nei confronti di soggetti deboli e indifesi, nella quale non sia più necessario comprendere e accogliere chi appare fisicamente diverso? In assenza di un valore etico, su cosa si fonda il criterio per stabilire chi debba far parte della razza geneticamente superiore, autorizzata a eliminare quella geneticamente inferiore? Chi determina i requisiti per ammettere una persona nella “società perfetta”?».

Le vicende di buona parte degli artisti presi in considerazione mostrano la falsità di tali assunti anche sul piano culturale. Senza di loro il mondo avrebbe perduto la dimensione della bellezza, della profondità, dell’arte; essi possono essere considerati dei «minorati» sul piano psichiatrico, eppure hanno saputo esprimere le altezze dell’ingegno umano. A beneficio di tutti.

La Jamison, che ha indagato a lungo tale problematica in sede letteraria e psichiatrica proprio per averla sperimentata in prima persona (lottò per trent’anni con la depressione e impulsi suicida), conclude la sua ricerca mettendo in guardia dalla tendenza a stabilire confini arbitrari tra normalità e patologia, che si traduce poi in diritto o meno di vivere, riconoscendo la grande importanza che ogni categoria di persone ha per tutta l’umanità.

E lo fa dando la parola a uno psichiatra che ha studiato sotto questo aspetto l’opera e la vita di Edgar A. Poe: «Le caratteristiche della mente, come pure le reazioni morbose, sono troppo delicate per poterle comprendere o prefissare scientificamente [...]. Se riuscissimo a sradicare le diatesi nervose, a sopprimere il sangue bollente che risulta dall’unione troppo ravvicinata di nevrotici, oppure dalla follia e dalle varie forme di degenerazione parentale, finiremmo con l’avere una stirpe di stoici: uomini senza immaginazione, individui incapaci di entusiasmi, cervelli senza personalità, anime senza genio».

di Giovanni Cucci