Etica tecnologica

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20 febbraio 2021

Come parlare di giustizia sociale nel mondo del lavoro digitale? Una prospettiva secondo me molto efficace ci è offerta dall’etica della tecnologia. Per capire, in maniera sintetica, cosa voglia dire interrogare il mondo del lavoro digitale, secondo questa prospettiva, introduciamo un paio di esempi fatti da Langdon Winner. Il professore statunitense, uno tra i fautori della cosiddetta svolta empirica nella filosofia della tecnologia, in un suo celebre studio si chiedeva provocatoriamente se gli artefatti tecnologici avessero una funzione politica.

Il testo in questione (cfr. L. Winner, Do Artifacts Have Politics? in «Daedalus» 1-109 [1980], 121-136) oltre ad aver segnato la riflessione degli ultimi quaranta anni è particolarmente degno di nota anche per dove è stato pubblicato: «Daedalus» è una rivista accademica fondata nel 1955 in sostituzione degli «Atti dell’Accademia Americana delle Arti e delle Scienze», è pubblicata da Mit Press per conto dell’American Academy of Arts and Sciences e ogni numero affronta un tema con saggi sulle arti, scienze e discipline umanistiche e la scrittura è solo su invito. Ci troviamo di fronte a un contributo che vuole proprio segnare una linea di confine nel modo con cui si leggeva l’innovazione tecnologica e il suo impatto sociale.

Winner mostra come le macchine, le strutture e i sistemi della moderna cultura materiale possono essere accuratamente giudicati non solo per il loro contributo di efficienza e produttività, non solo per i loro effetti collaterali positivi e negativi sull’ambiente, ma anche per i modi in cui possono incarnare specifiche forme di potere e di autorità. Per poter mostrare questo effetto politico e sociale della tecnologia ricorre ad alcuni esempi. Uno di questo merita particolare attenzione. Nell’analisi che Winner offre della costruzione di una serie di cavalcavia messi in opera tra gli anni Venti e Settanta del secolo scorso sulle strade dello Stato di New York che portavano a Long Island, emerge come dietro ci fosse una precisa volontà politica: realizzare i ponti fuori standard, più bassi che nel resto del Paese, avrebbe permesso l’accesso alle spiagge solo alla classe media bianca, che possedeva le automobili, e non a tutte le altre minoranze etniche che solitamente viaggiavano in autobus. Conclude Winner che questo e altri esempi di architettura e urbanistica mostrano con una lampante chiarezza come ogni disposizione tecnica, ogni artefatto tecnologico, sia di fatto un modo per costruire una forma d’ordine nel mondo.

Scorrendo le pagine dell’articolo si scopre come Winner abbia ricostruito la volontà politica dei costruttori: «I circa duecento cavalcavia sospesi a Long Island sono stati deliberatamente progettati per ottenere un particolare effetto sociale. Robert Moses, il capomastro costruttore di strade, parchi, ponti e altre opere pubbliche dagli anni Venti agli anni Settanta a New York, fece costruire questi cavalcavia secondo specifiche che avrebbero scoraggiato la presenza di autobus sulle sue corsie. Secondo le prove fornite da Robert A. Caro nella sua biografia di Moses, le ragioni riflettono il pregiudizio di classe sociale e razziale di Moses. I bianchi di classe “alta” e “comoda classe media”, come li chiamava lui, che possedevano automobili, sarebbero stati liberi di usare i parcheggi per la ricreazione e il pendolarismo. I poveri e i neri, che normalmente usavano i mezzi pubblici, erano tenuti fuori dalle strade perché gli autobus alti dodici piedi non potevano attraversare i cavalcavia. Una truffa consisteva nel limitare l’accesso delle minoranze razziali e dei gruppi a basso reddito a Jones Beach, l’acclamato parco pubblico di Moses. Moses si è reso doppiamente sicuro di questo risultato ponendo il veto su una proposta di estensione della Long Island Railroad a Jones Beach. Come racconto della recente storia politica americana, la vita di Robert Moses è affascinante. I suoi rapporti con sindaci, governatori e presidenti, e la sua attenta manipolazione delle legislature, delle banche, dei sindacati, della stampa e dell’opinione pubblica sono tutte questioni che gli scienziati politici hanno potuto studiare per anni. Ma i risultati più importanti e duraturi del suo lavoro sono le sue tecnologie, i vasti progetti di ingegneria che danno a New York gran parte della sua forma attuale. Per generazioni, dopo che Moses se n’è andato e le alleanze che ha stretto sono andate in frantumi, le sue opere pubbliche, soprattutto le autostrade e i ponti che ha costruito per favorire l’uso dell’automobile rispetto allo sviluppo dei trasporti di massa, continueranno a dare forma a quella città. Molte delle sue monumentali strutture in cemento e acciaio incarnano una sistematica disuguaglianza sociale, un modo di ingegnerizzare i rapporti tra le persone che, dopo un certo tempo, diventa solo un’altra parte del paesaggio. Come il progettista Lee Koppleman ha raccontato a Robert A. Caro dei ponti bassi sulla Wantagh Parkway: «Il vecchio figlio di buona donna si era assicurato che gli autobus non avrebbero mai potuto utilizzare le sue maledette autostrade» (il testo originale è in inglese la traduzione proposta è nostra, cfr. L. Winner, Do Artifacts Have Politics?, art. cit., 123—124).

Ben prima della rivoluzione digitale, con la sua lettura del fenomeno tecnologico, Winner ci mette in grado di portare la critica etica fin nel cuore dell’innovazione tecnologica. Guardare al mondo del lavoro nell’epoca del digitale è allora chiedersi come gli algoritmi facciano “da ponte” tra gli uomini, tra i lavoratori e tra i datori di lavoro e gli impiegati.

Oggi è con gli algoritmi, questi nuovi attori sociali del continente digitale, che realizziamo e trasmettiamo dei limiti sociali e politici al nostro comportamento.

Per comprendere perché gli algoritmi stiano entrando così velocemente nella relazione tra datore di lavoro e dipendente dobbiamo guardare al fenomeno della gig economy. Questo tipo di economie sorge quando le aziende, invece che assumere impiegati a tempo pieno, impegnano appaltatori indipendenti e liberi professionisti.

Poiché un gran numero di lavoratori desidera partecipare a una gig economy per le ragioni più svariate, i risultati sono servizi più economici e più efficienti. Non ci interessa in questa sede analizzare il fenomeno della gig economy o fornire di questa una valutazione, ma solo sottolineare come questo nuovo modo di intendere le relazioni lavorative sia parte di quelle condizioni che richiedono l’algoritmizzazione del lavoro e che consentono agli strumenti algoritmici di diventare i nuovi protagonisti del lavoro.

Nel dibattito pubblico spesso si sono diffuse riflessioni pessimistiche sull’impatto delle trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie che risultano allarmistiche. Sembra importante sottolineare con Michele Faioli come sia errato affrontare il tema dell’innovazione tecnologica ponendo l’accento sui potenziali impatti negativi sull’occupazione: serve riflettere su come regolare l’avanzamento tecnologico per correggere eventualmente le dinamiche distorsive in termini di protezione del lavoro.

Se il modello e il desiderio di lavoro si muovono velocemente verso questa disarticolazione della relazione datore di lavoro - dipendente, e se il modello dominante è assumere l’individuo più performante ed economico, allora si capisce perché le metriche diventino così importanti.

In un mercato fatto di acquisti singoli senza relazione — si pensi a quando si compra un prodotto su Ebay — la fiducia e la conoscenza vengono surrogate dalle metriche di soddisfazione che il venditore e l’acquirente misurano al momento della vendita. Questo criterio si sta spostando nel lavoro ordinario, che sempre più spesso sta diventando una prestazione tra sconosciuti. La fiducia, una componente indispensabile per le relazioni umane, non può essere assente: al massimo può essere surrogata.

Il vero problema è la distanza tra i dati, le metriche stimate da questi dati, il significato delle metriche interpretato da un sistema di intelligenza artificiale, opaco e chiuso in algoritmi proprietari, e il reale valore del capitale umano che si sta valutando. La distanza tra realtà e dati è qui quanto mai evidente. Per evitare pregiudizi, ne stiamo di fatto creando uno nuovo: non siamo persone o risorse  umane bensì dati, e ciò che non è datificabile non ha posto in un mondo di questo tipo.

Infine, qui si apre una sfida stimolante per i sindacati. L’algoritmo si mostra qui come un’interessante entità. Non è uno strumento di calcolo e basta, bensì un vero e proprio attore sociale che entra a pieno titolo nel complesso sistema della concertazione  sindacale. Solo se sapremo aprire l’algoritmo rendendolo una voce esplicita nelle concertazioni potremo avere strumenti di maggiore obiettività nella concertazione e nella contrattazione  tra lavoratore e azienda.

In tale contesto sarà compito soprattutto degli studiosi di diritto del lavoro interrogarsi sull’adeguatezza delle protezioni del lavoratore predisposte dall’ordinamento giuridico a fronte dei nuovi scenari. Interrogarsi, cioè, sulla capacità del diritto del lavoro di realizzare una tutela efficace ed equa nel contesto indotto dalle nuove frontiere tecnologiche1.

Se l’algoritmo rimane nascosto e opaco, si corre il rischio di sottrarre ai sindacati, e di conseguenza ai lavoratori, uno spazio per co-determinare il proprio ruolo nel processo produttivo. Insomma se da una parte potremmo avviarci verso orizzonti di maggiore obiettività e trasparenza lavorativa, dall’altra potremmo desindacalizzare alcune forme o modalità di lavoro con risultati incerti e particolarmente esposti a usi illeciti di questi sistemi.

Come osserva Faioli: «nella gig economy le funzioni di datore di lavoro non sono svolte da un soggetto organizzato verticalmente, bensì dalla piattaforma digitale che permette la gestione dei rapporti di lavoro che a essa sono collegati. C’è un datore di lavoro algoritmico (cioè, la piattaforma) che facilita il matchmaking tra domanda e offerta di lavoro. Di qui la piattaforma può altresì organizzare il lavoro, controllarne l’esecuzione, vigilare sul comportamento dei lavoratori e irrogare sanzioni. La piattaforma, però, non assume in sé gli obblighi del datore di lavoro» ( Il lavoro nella Gig Economy, in «Quaderni del CNEL» 3 [2018], M. Faioli [a cura di], 35).

Siamo così giunti alla più radicale delle domande. Descritto quanto sta accadendo, circostanziato il fatto nell’orizzonte di alcune modalità (l’economia di precisione e il fascino pervasivo della gig economy); considerate anche le fatiche che intermediazioni tradizionali come i sindacati sembrano fare nel gestire queste forme di innovazione, dobbiamo interrogarci sulla natura dell’algoritmo. L’algoritmo, qui inteso come strumento che tiene traccia, valuta e coordina il lavoratore e il suo carico di lavoro, è ancora un mero strumento?

Cosa vuol dire e cosa deve comportare il fatto che l’algoritmo, che sostiene l’economia di precisione e la sua attuazione specialmente nella gig economy, possa essere capito come un vero e proprio attore sociale?

Se l’algoritmo dell’economia di precisione può essere considerato un attore sociale, questo dovrebbe essere partecipe di quei tavoli dove le varie parti sociali (umane, societarie e algoritmiche) si confrontano dichiarando i propri interessi, le proprie modalità e le finalità?

L’algoritmo sempre più si mostra come una nuova forma di persona, né meramente individuale né giuridica, che caratterizza sempre più il vivere sociale e lavorativo. Tuttavia questo non sembra in questo momento godere di una comprensione e una normazione adeguata. Abbiamo bisogno di pensare e definire forme di etica per gli algoritmi, l’algor-etica (cfr. P. Benanti, Le macchine sapienti, Marietti Bologna 2018), ma anche adeguati strumenti di controllo sociale per evitare che questi invisibili ma efficacissimi strumenti di controllo sociale risultino componenti affrancate da ogni controllo sociale a cui privati e compagnie delegano compiti e funzioni che a loro non sarebbero consentiti.

La persona umana, luogo di vissuti che chiedono di essere comunicati, costruisce grazie a questo strumento che informa l’immaginazione, un mondo condiviso di valori e diritti ove il bene capito e voluto diventa il confine della libertà di ciascuno. Il senso che l’uomo percepisce nel suo vivere e che riesce a comunicare al suo simile diviene un patrimonio condiviso che orienta la libertà umana dandole forma nella direzione del lecito e dell’illecito, questo deve caratterizzare anche il mondo digitale del lavoro: abbiamo bisogno di un’algor-etica che contribuisca alla pace e giustizia sociale.

di Paolo Benanti

Ibidem.