L’anno di Fëdor Dostoevskij (1821-1881)

Un colpo di fulmine

Note al quinto capitolo de «I fratelli Karamazov»
19 febbraio 2021

Fëdor Dostoevskij giganteggia nella storia della letteratura come uno dei maggiori romanzieri da sempre. I Fratelli Karamazov, Delitto e Castigo, L’idiota fanno parte delle letture comprese nel canone della cultura contemporanea, la sua vita incastrata al centro del xix secolo — nacque nel 1821 e scomparve nel 1881 — ne ha fatto uno degli osservatori più attenti, quasi profetico, dei momenti di nascita della società contemporanea, di quell’epoca di passaggio dal moderno al contemporaneo nella quale in economia, morale, religiosità, politica, filosofia, scienza, estetica, persino tecnologia e geografia vengono gettate le basi del mondo nel quale viviamo, o almeno abbiamo vissuto fino a pochi anni orsono, fino a quando la digitalizzazione ha impresso una nuova svolta alle modalità di costruzione dei rapporti umani, a quanto sembra in tutti i campi.

Di fronte a questo genio si pone Julia Kristeva, linguista, filosofa, psicanalista, scrittrice bulgara naturalizzata francese, che sulla soglia degli ottant’anni sembra voler pagare al romanziere russo una sorta di debito di riconoscenza dedicandogli Dostoevskij. Lo scrittore della mia vita, tradotto da Lila Grieco per Donzelli, editore italiano di molte delle opere della Kristeva (Roma, 2020, pagine 186, euro 19,99).

Il libro consiste in una scelta di brani tratti dalle lettere, dai diari, dai romanzi e dai racconti di Dostoevskij introdotti da una lungo e denso saggio dal carattere autobiografico nel quale l’autrice presenta il proprio rapporto con l’opera del narratore, a partire da una sorta di recensione miniaturizzata de L’idiota che quand’era ragazza ricevette da suo padre: «Distruttivo, demoniaco e vischioso, lascia perdere!». Forse un invito alla lettura mascherato. Cosa dire di più adatto per convincere un adolescente ad iniziare una lettura?

Fu un colpo di fulmine. Come lo è stato per moltissimi altri. La scrittura di Dostoevskij è dotata di una potenza primitiva e di una capacità di giungere alla radice delle emozioni, di cogliere l’irrazionalità di fondo che si agita nelle profondità umane, capaci di conquistare ogni lettore sensibile. Lo scrittore russo riconosce ed esibisce in pieno la forza del «non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» di san Paolo nella lettera ai Romani, la consapevolezza del peccato originale, se vogliamo, che costituisce la conquista etica di ogni adolescenza risolta.

Julia Kristeva non si accontenta di questo. Vuole andare oltre, come ogni autore vuole impadronirsi del testo dal quale è affascinata e che ha continuato a frequentare durante la vita, così arriva a darne una lettura personalissima, che come dicevamo sopra si fa autobiografia.

Una ricerca profetica di sé nell’altro, che vuole inserire se necessario a forza Dostoevskij nel proprio albero genealogico, e che perciò ne cerca ed esalta le somiglianze, i tratti di famiglia, trascurando aspetti significativi ma non congrui al progetto.

Ecco allora l’analisi psico-analitica e linguistica, la ricerca approfondita dei ruoli domestici, dei simboli, dei rapporti e delle affinità tra i personaggi, l’esame dei passaggi nei quali la violenza diviene più ingiustificata, lo studio sui paralleli esistenti tra scrittura e biografia dostoevskiana.

In primo piano vanno allora freudianamente sessualità e rapporti con le donne, rimangono in ombra la tradizione russa e la spiritualità ortodossa, delle quali l’opera di Dostoevskij è imbevuta e che però nell’analisi della Kristeva appaiono scontate, riconosciute senza essere approfondite. Lo stesso grande inquisitore, inserito nell’antologia, compare quasi come un ospite di circostanza, una presenza obbligata, vecchio zio invitato al pranzo di festa al quale si assegna un posto d’angolo alla tavola.

Occorre dunque riconoscere che proprio da questa angolatura particolare, e certamente forzata, del punto di vista sull’opera del gigante russo provengono gli elementi di maggior interesse del testo, che stimola una lettura ulteriore e forse persino nuova di un autore dalle profondità ancora almeno in parte inesplorate.

Del resto il tratto caratterizzante della grande narrativa, in questo prossimo alla patristica, consiste proprio nello spessore della scrittura, dentro la quale si può scavare a lungo senza esaurirne il significato.

di Sergio Valzania