Un «realismo cristiano» perturbante e imprevedibile

Ladri di gambe artificiali
e altre storie

Brad Dourif interpreta Hazel Motes in una scena di «Wise Blood» di John Houston (1979)
19 febbraio 2021

Non è facile leggere la narrativa di Flannery O’Connor, dove uno stile chiaro, veloce, realistico descrive vicende per lo più grottesche e violente, in un brulicare di simboli e rimandi. Eppure le sue storie esercitano una fortissima attrazione sul lettore che, benché affaticato, anzi, a volte stordito, si ritrova richiamato a un “confronto suo malgrado” con le questioni cruciali dell’esistenza. Proprio in questo territorio estremo si muovono i personaggi della scrittrice di Savannah, strampalati, ma inflessibili cercatori di assoluto; anime pervicacemente chiuse in se stesse, fino a quando un fatto violento e imprevisto non sopravviene a scardinarne convinzioni e chiusure. L’apertura raggiunta costa loro lacrime e sangue, ma è questa l’unica via possibile per raggiungere la prossimità con il mistero.

Leggere questa narrativa vuol dire quindi frequentare una zona spirituale faticosa: vuol dire guardare la realtà alla luce di un realismo cristiano a volte sconcertante, che fa del limite dell’uomo il suo punto di forza. Uno sguardo tanto più impietoso, quanto più rimandante a una pietà più grande e incondizionata. Quella di Flannery O’Connor è una narrativa della chiamata, dell’appello, una narrativa militante, che esorta il lettore a riconoscere Cristo sotto le mentite spoglie di un tacchino (Il tacchino), di un bosco (La veduta del bosco), di un ladro di gambe artificiali (Brava gente di campagna) o di un pluriomicida (Un brav’uomo è difficile da trovare). Tutti gli altri, credenti o meno, benpensanti o nichilisti, sono destinati a non capire o a gridare allo scandalo, incapaci di afferrare il pullulare di figure cristologiche dei suoi racconti; anzi, proprio perché queste sono incarnate in una scrittura del concreto, vengono ignorate o travisate.

D’altra parte una Flannery appena ventenne, intratteneva con Dio conversazioni intime, serrate, appassionate, fatte di sfoghi, confessioni e suppliche, come testimoniano le trentasette pagine del suo Diario di preghiera, dove la scrittrice ancora in erba intimava: «Oh Signore, al momento sono una scamorza, fa’ di me una mistica, immediatamente!». Ciò che queste righe confermano, in modo sorprendente, è come il conflitto tra Io e Dio sia innanzitutto una “modalità interiore” dell’autrice stessa che, successivamente in una delle sue lettere, avrebbe definito il suo rapporto di bambina con l’angelo custode nei termini di un fare a pugni senza esclusioni di colpi.

Scrive Flannery a proposito delle reazioni imbarazzate da parte dei suoi lettori: «Quando ho cominciato a scrivere, questa faccenda di scandalizzare la gente mi preoccupava non poco, convinta com’ero di scrivere cose incendiarie (…) la gente non fa che scandalizzarsi non solo di quanto per sua natura è scandaloso ma di quanto non lo è (…) Il fatto è che per non scandalizzarsi bisogna avere una visione d’insieme delle cose, e sono in pochi ad averla».

La visione d’insieme a cui si riferisce Flannery è quella centrata sul mistero cristiano per eccellenza e cioè l’Incarnazione. Lo scandalo si crea quando uno stile concreto e realista presenta in carne e sangue un’imperscrutabile verità della fede, di solito affrontata dal concetto o dalla devozione. La sconcertante conseguenza di uno spirituale incarnato nella realtà sta nel fatto che diviene impossibile “controllare il mistero”, relegandolo in quel determinato luogo e tempo in cui ci si predispone, più o meno sinceramente, ad affrontarlo. L’assoluto, invece, si mostra imprevisto e violento, frantumando equilibri e convinzioni, rompendo a volte anche le ossa.

Il vero scandalo che il lettore, invece, dovrebbe cogliere è rappresentato, secondo Flannery O’Connor, dalla chiusura dell’uomo alla speranza di redenzione. Il grottesco, il negativo non sono attributi di genere, espedienti letterari, ma caratteristiche essenziali e imprescindibili di un’umanità marchiata nel corpo e nello spirito dal peccato originale, rappresentato, in una narrativa della concretezza, da una deformazione fisica e psichica. Devianza e deformità vengono provocatoriamente usate dalla scrittrice “per aprire gli occhi alla gente”, per concentrare la loro attenzione sull’esperienza cruciale, perno della sua scrittura, quella della finitezza.

Hazel Motes, protagonista del romanzo La saggezza nel sangue, la sperimenta in pieno. Reduce di guerra, ormai solo al mondo, nella Georgia degli anni Quaranta, inizia una predicazione paradossale, quella di una chiesa nuova: la chiesa della verità senza Gesù Cristo. L’ossessione di Haze, la sua “cristofobia”, è il tema dominante del libro. Il giovane predica una chiesa “in negativo”, la Chiesa Senza Cristo, un nuovo credo a basso costo, con uno degli ennesimi Dio-fai-da-te a proprio uso e consumo.

Ma i suoi gesti sono tanto più estremi quanto più vani. Sperticato cercatore d’assoluto, Hazel Motes, più che un predestinato, è già un consacrato: tanto più nega Cristo, tanto più se lo trova vicino. Non può evitarlo; ce l’ha nel sangue come una sorta di sigillo ereditario. Solo al termine di una sconvolgente esperienza di destabilizzazione si abbandonerà nelle braccia del mistero.

Insomma, Flannery O’Connor è un’autrice scomoda e disturbante a trecentosessanta gradi, perché le sue storie ci richiamano al confronto serrato con le “questioni ultime”, attraverso il racconto di esperienze, vite, persone fatte di carne e sangue, quindi vicine a noi, anzi come noi. Il concetto, la morale della favola, la riflessione ex-post, tutte quelle astrazioni che allontanano e rassicurano, non esistono in una narrativa in cui, attraverso l’azione e la responsabilità individuale, la libertà si gioca il tutto per tutto, richiedendo al lettore un coinvolgimento radicale e una netta presa di posizione, rilanciando sempre il “prendere o lasciare”.

di Elena Buia Rutt