Classici cristiani
I suggerimenti del gesuita Jean-Pierre Médaille

Massime di perfezione

Beato Angelico , «Comunione degli apostoli» (1440- 1442)
17 febbraio 2021

Le Massime di perfezione del gesuita Jean-Pierre Médaille riflettono quel desiderio di unità, quella sete di comunione che animarono tutta la sua esistenza. Visse in tempi difficili. Nato il 6 ottobre 1610 a Carcassonne in un’agiata famiglia borghese da Jean, che ricopriva l’importante incarico di "avvocato del re", e da Phelippe d’Estevenel, fu allievo dei gesuiti nel collegio cittadino. Giovanissimo sentì la chiamata del Signore e il 15 settembre 1626 venne ammesso nel noviziato di Tolosa dove ben presto si distinse per l’impegno spirituale e la vivace intelligenza. Nel settembre 1628 pronunciò i primi voti e poco dopo, a ottobre, compì 18 anni, proprio nello stesso mese in cui il cardinale Armand-Jean du Plessis de Richelieu espugnò la fortezza ugonotta di La Rochelle, che aveva resistito disperatamente per quattordici mesi. Jean-Pierre fu dunque un contemporaneo di questo avvenimento considerato dagli storici l’appendice delle otto guerre di religione che sconvolsero la Francia dal 1562 al 1598. Ordinato sacerdote nel 1637, padre Médaille esercitò il suo apostolato nel collegio di Aurillac e in quello di Saint-Flour. Poi fu a Rodez e a Le Puy-en-Velay dove fondò una delle prime congregazioni di vita attiva, le suore di San Giuseppe, oggi diffuse in tutto il mondo. La nuova comunità ebbe inizio il 15 ottobre 1650 e venne approvata con lettera patente il 10 marzo 1651 dal vescovo di Le Puy-en-Velay, monsignor Henri de Maupas. Nella sua intensa attività di predicatore, confessore e padre spirituale, padre Médaille aveva toccato con mano la scia di odio, morte, distruzione, miseria, seminata da circa cinquant’anni di guerra civile.

Contemplando l’eucaristia, «mistero di unione, perfettamente unificante, il modello del nostro amore per Dio e della nostra carità per il prossimo», si era sentito chiamato a dare una risposta ai desideri generosi di alcune giovani che volevano mettersi a servizio dei poveri. La fondazione fiorì e crebbe, sostenuta dal vento dello Spirito santo. Dal 1654 fino quasi alla morte, avvenuta a Billom il 30 dicembre 1669, padre Médaille fu incaricato delle missioni popolari nella diocesi di Clermont. Per le sue suore scrisse la Lettera eucaristica, i Regolamenti, le Costituzioni, il Piccolo direttorio e le Massime del Piccolo Istituto. Preparò anche un testo di maggior respiro, le Massime di perfezione, rivolto non solo alle religiose, ma anche ai laici, proprio come già aveva fatto san Francesco di Sales con la Filotea. Il libro ebbe successo: gli aforismi intensi e succosi si accattivavano l’interesse dei lettori e rispondevano al gusto dell’epoca. Basti pensare all’opera di François de La Rochefoucauld (1613-1680), alle sue sentenze un po’ amare, con una visione disincantata dell’esistenza.

Completamente diverse le pagine del gesuita dove le sue massime irradiano una grande pace, la dolcezza della carità. Il periodo travagliato in cui visse non trasformò padre Médaille in un duro apologeta, in un polemista, anzi fece scaturire in lui una più intensa nostalgia di koinonia, di comunione. Alle sue suore scriveva: «Ecco il fine della nostra congregazione: essa tende a procurare questa duplice unione totale di noi stesse e di tutto il caro prossimo con Dio e di noi con ogni prossimo e di tutto il caro prossimo con se stesso e con noi, ma tutto in Gesù e in Dio suo Padre […]. Piaccia alla bontà divina che noi possiamo contribuire, sia pure come debole strumento, a ristabilire nella Chiesa questa totale unione delle anime in Dio e con Dio». Nelle Massime di perfezione risuona lo stesso anelito. Il testo uscì nel 1657, ma la prima edizione non è stata ritrovata. Tre anni dopo la morte dell’autore, nel 1672, venne stampato nuovamente a Clermont da Nicolas Jacquard, primo editore e fornitore ordinario di libri al re, al vescovo e al clero. Jacquard aggiunse una dedica a Gilbert de Véni d’Arbouze, vescovo di Clermont, (1664-1682), in cui scrisse che le Massime di perfezione erano state apprezzate da un ampio pubblico e che fra i tanti lettori ed estimatori c’era anche stata Anna d’Austria, (1601–1666), la madre di Luigi xiv , il "re sole". Con una pennellata l’editore affrescò padre Médaille durante il suo apostolato, ricordando al vescovo: «Lei, monsignore, ha sovente ascoltato con soddisfazione le ferventi predicazioni di questo servo di Dio animato da un fuoco divino che lo Spirito Santo poneva sulle sue labbra».

Il libro si apre con un appassionato invito dell’autore ad ogni lettore perché si proponga seriamente di vivere «la perfezione del Vangelo». Con un chiaro riferimento alla famosa frase di sant’Agostino ne Le confessioni (libro viii, 27), «Tu non poteris, quod isti, quod istae?», padre Médaille scrive nell’introduzione: «Osserva la moltitudine di santi e di sante che sono vissuti nel passato, e che vivono tuttora, praticando le virtù insegnate da queste massime. Potrai così dire: come? Non potrò fare anch’io quello che hanno fatto e fanno questi e quelle? Non potrò imitare la loro santità e seguire gli esempi di vita perfetta che essi mi hanno dato e mi danno?». Il volume si suddivide in due parti. La prima s’intitola: «Le massime di perfezione sviluppate nei particolari della pratica» e mostra il fine di un’autentica vita cristiana, i mezzi da usare e le virtù da praticare; la seconda, sulle «Massime di perfezione riprese nel fervore dell’orazione» presenta preghiere e contemplazioni della vita di Gesù. Peraltro tutta l’opera ha una chiara impostazione cristocentrica ed è intessuta di riferimenti biblici. A padre Médaille sta a cuore che le persone crescano nella carità, nell’amore ardente per Dio e per il prossimo. Più vede intorno a sé lotte e divisioni, più sente risuonare nel suo cuore la preghiera di Cristo nell’ultima cena: «Tutti siano una sola cosa» (Giovanni, 17, 21). Egli propone la radicalità evangelica, l’imitatio Christi, il cammino di kenosis e di risurrezione espresso nell’inno della Lettera ai Filippesi, 2, 5-11. Continuo è il richiamo a Galati, 2, 20: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», e a Filippesi, 1, 21: «Per me il vivere è Cristo». Padre Médaille conosce l’insegnamento dei maestri spirituali che l’hanno preceduto, ne sente l’influsso e ne trae una sintesi personale. Il testo ha un’evidente impronta ignaziana, specialmente nella seconda parte, che dà ampio spazio alla contemplazione dei misteri della vita di Cristo in un modo che ricorda molto gli Esercizi spirituali. E tante massime sono animate dallo slancio apostolico, dal coraggio e dalla generosità di sant’Ignazio. In altre si sente la dolcezza di san Francesco di Sales, la sua fiducia nella Provvidenza, il suo desiderio di perseguire le bon plaisir de Dieu. Molto probabilmente padre Médaille assimilò bene gli scritti del fondatore dell'ordine della Visitazione anche grazie ai suoi rapporti amichevoli con il vescovo di Le Puy-en-Velay. Infatti monsignor Henri de Maupas fu il primo biografo di san Francesco di Sales e fu incaricato di prendersi cura del suo processo di canonizzazione. Negli aforismi sull’unione con Cristo si sente l’influsso del gesuita Jean-Baptiste Saint-Jure e in quelli sull’"annientamento", un’espressione tipicamente del Seicento per parlare della kenosis, c’è l’impronta di Jean-Jacques Olier. In modo del tutto personale, padre Médaille (che si era fatto gesuita mentre la sua ricca famiglia borghese si stava attivando per arrivare alla noblesse de robe, il blasone che otterrà nel 1697) estende il tema alle tematiche sociali e scrive: «Voglio annientarmi evitando gli incontri mondani che sanno di sfarzo e della familiarità coi grandi, per vivere con i piccoli e trattare di preferenza con i semplici e con i poveri». Scritta nella Francia che aveva chiamato sprezzantemente le rivolte contadine del 1592 “rivolte dei sorci”, “des croquants”, questa massima ci mostra la purezza di cuore di un gesuita che volle vivere solo «per Dio e per il caro prossimo». Così la lezione di padre Jean-Pierre Médaille, apostolo dell’unità, inondò silenziosamente di luce la sua epoca insanguinata. Ed è valida anche per il nostro tempo inquieto.

di Donatella Coalova