Insospettati squarci interpretativi sull’Alighieri

La valle oscura
dell’astigiano Bruno

Gustave Doré, «Dante nella valle oscura»
17 febbraio 2021

Tra i molti volumi usciti in occasione del settimo centenario della morte di Dante, spicca — a parere di chi scrive — il libro di Giulio d’Onofrio, Per questa selva oscura. La teologia poetica di Dante (Roma, Città Nuova, 2020, pagine 702, euro 30). E ciò per vari motivi.

Innanzitutto per l’ampiezza, testimoniata, oltre che dal numero complessivo delle pagine, dallo straordinario apparato di sussidi: una vastissima bibliografia a cui sono affiancati diversi utili indici che guidano il lettore nel reperimento di tutti i nomi citati nel volume, nella ricerca dei passi dei testi di Dante, nell’individuazione delle citazioni bibliche, dei termini, delle nozioni, dei luoghi e dei personaggi danteschi, che punteggiano il grosso tomo.

Certamente queste caratteristiche, per così dire esterne, del libro di d’Onofrio non sarebbero sufficienti a motivare il giudizio molto positivo che ho espresso poco sopra, se il contenuto di esso non si rivelasse decisamente convincente. Ebbene, non v’è dubbio che quanto l’autore ha scritto si presenti oltremodo interessante e, cosa ancor più rilevante, originale.

Tale originalità balza immediatamente agli occhi appena si leggono le pagine del Preludio posto all’inizio del libro, nelle quali l’autore avanza un’ ipotesi di lettura davvero suggestiva, che potremmo così sintetizzare: l’immagine, famosissima, della “selva oscura” con cui si apre la Divina Commedia compare in un commento al libro dell’Esodo composto nell’ultimo ventennio dell’ xi secolo dall’astigiano Bruno, vescovo di Segni, località situata a una settantina di chilometri a sud di Roma. Volendo ringraziare il Signore per averlo sostenuto durante la faticosa redazione del commento al secondo libro dell’Antico Testamento, Bruno scrive: «Ma io, ora, rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato lungo la via diritta, come credo, per questa selva oscura assai e fitta». Non v’è dubbio che la consonanza di queste parole con i primi versi della Commedia risulti impressionante, e invocare la mera casualità sembra poco opportuno.

D’Onofrio non soltanto non si appella al caso, ma prende spunto da questa scoperta per impostare tutto il suo lungo e complesso cammino all’interno del capolavoro dantesco, che diventa nel contempo attenta analisi della personalità e della cultura dell’Alighieri.

La grande familiarità con l’universo medievale — d’Onofrio è un affermato specialista della storia del pensiero filosofico e teologico dell’età di mezzo — permette all’autore di avventurarsi, dunque, nella ricostruzione delle fonti a cui si è ispirato il sommo poeta, aprendo squarci interpretativi davvero insospettati o, comunque, non ancora adeguatamente approfonditi. Così, accanto ai più noti punti di riferimento costituiti dai grandi Padri della Chiesa, quali Ambrogio, Agostino e Girolamo, e da alcuni maestri altomedievali come Boezio, Cassiodoro e Gregorio Magno, d’Onofrio pone altre fondamentali figure, tra cui Giovanni Scoto, Anselmo d’Aosta, Bernardo di Chiaravalle e Riccardo di San Vittore, mostrando in tal modo le basi sulle quali è maturato il pensiero di Dante, che — ciò non va dimenticato, e tutto il libro lo conferma in maniera illuminante — fu teologo di notevole profondità, capace di elaborare, come recita il sottotitolo, una vera e propria teologia poetica.

«La nuova luce — afferma l’autore —- proveniente dall’intima spiritualità meditativa di questa tradizione di pensiero, dominata dal principio della caritas universale, evidenzia nell’intera opera di Dante i tratti precisi della sua vocazione di poeta-teologo: la coscienza, cioè, di essere chiamato, nel “mezzo” della sua esistenza terrena, al compimento di un’alta missione di rieducazione dell’umanità».

Per l’Alighieri il ritrovamento della «diritta via» si concretizzò nel finalizzare la poesia alla testimonianza delle verità del cristianesimo, verità salvifiche che Dio ha donato all’uomo per amore, un amore che conduce alla salvezza e la realizza. In tutto questo d’Onofrio ritrova un chiaro messaggio pasquale, e non per caso termina il suo scritto prendendo in esame un enigmatico sonetto dantesco che ha dato origine a numerose interpretazioni.

Dall’analisi di tale componimento, che inizia con le parole “Messer Brunetto”, l'autore trae le seguenti conclusioni: «Il richiamo a fare della propria vita la via di salvazione, per sé e per gli altri, dalla tenebra del peccato, illustrata dall’immagine della "selva oscura" che ha impressionato il giovane poeta teologo quando l’ha incontrata nell’explicit del commento all’Esodo di Bruno di Segni, affiora con efficacia nella condivisione comunitaria di questo sacramento. E l’invito allegorico rivolto a Messer Brunetto a celebrare insieme questa Pasqua speciale si configura come la conferma che, in modo certo, chiude il cerchio».

di Maurizio Schoepflin