«Davanti al tuo trono io mi presento», un inno alla misericordia di Dio

L’ultimo corale di Bach

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17 febbraio 2021

Johann Sebastian Bach morì a 65 anni la sera del 28 luglio 1750. Al mattino dal letto aveva dettato al suo genero e allievo Johann Christoph Altnickol (1720- 1759), anch’egli organista e compositore, l’armonizzazione di un corale, il cui testo era stato scritto da Paul Eber (1511-1569) verso il 1560. Nella versione originale si trattava e ancora si tratta di un canto destinato alla liturgia protestante del tempo quaresimale. Il morente Bach, profondamente religioso, vi adattò il titolo di un altro corale, Davanti al tuo trono io mi presento, facendone il suo testamento spirituale.

La poesia di Eber si basa a sua volta su un testo latino, composto nel 1546 dall’umanista Joachim Camerarius (1500- 1574) e musicato poi dal compositore francese Guillaume Franc (1505-1570), a sua volta coautore delle melodie del Salterio Ginevrino (alcune tra esse sono oggi entrate nell’uso comune italiano, quali Noi canteremo gloria a te e Terra promessa).

Il canto è però un inno alla fiducia in Dio; alla penitenza si fa solo accenno. Nelle sette quartine rimate di cui si compone viene delineata la situazione dell’essere umano, che nelle più grandi sofferenze non sa più dove «cercare aiuto e consiglio». Allora una sola via gli si apre dinanzi: «Chiedere a Dio la salvezza da ogni paura e sofferenza». Qui s’innesta la tematica penitenziale perché noi dobbiamo «alzare a lui l’occhio ed il cuore con vero pentimento e dolore, chiedendo perdono per i nostri peccati». La misericordia di Dio è certa: se noi, abbandonati da tutti, ci volgeremo a lui egli non guarderà i nostri peccati, ma «in virtù della sua grazia sarà accanto a noi in ogni miseria e ci libererà dal male». La certezza della vicinanza divina all’uomo sarà poi un elemento di fondo nel pensiero di molti teologi protestanti.

La melodia originale, composta da Johann Baptista Serranus (1540-1600) in sol maggiore è semplice e orecchiabile. Il polifonista Michael Praetorius (1571-1621) la elaborò per coro a 3 voci mentre Bach ne fece una versione per organo e coro. In seguito anche Johannes Brahms (1835-1897) la riprese in forma di mottetto a 3 voci. In Italia è conosciuta nell’adattamento a Raccoglici Signore in unità.

Il canto nella versione originale entrò presto anche nell’uso cattolico e oggi trova meritato posto nel repertorio ufficiale Gotteslob.

«O uomo, piangi grandemente i tuoi peccati» è l’inizio del corale che conclude la prima parte della Passione secondo San Matteo di Bach. Composto da Sebald Heyden (1499-1561) verso il 1530, e musicato da Matthias Greitter (1495-1550) questo canto nella sua forma semplice trova da tempo posto nella liturgia quaresimale, sia protestante che cattolica. Il testo consta di 23 stanze, ognuna di 12 versi rimati. All’esortazione iniziale segue l’affermazione di fondo: «Per questo Cristo abbandonò il grembo del Padre e venne in terra, nascendo da una vergine tenera e pura». Nelle strofe successive si narra in modo dettagliato la Passione di Cristo, dall’Ultima Cena alla Risurrezione. A conclusione del lungo racconto si esorta l’uomo a restare lontano dal peccato, mostrando «amore ad ognuno, sull’esempio che Cristo ci ha dato con la sua passione e morte».

La melodia originale in do maggiore è enfatica; l’esordio del settimo e dell’ottavo verso sul do alto le dà una certa grandiosità. Nella prassi liturgica si eseguono normalmente la prima e l’ultima strofa del lungo testo; nel capolavoro di Bach figura solo la prima.

I due testi cinquecenteschi associano la tematica quaresimale alla fiducia nella presenza di Dio accanto all’uomo, anche nei momenti più oscuri della vita, e all’esortazione verso l’esercizio della carità fraterna sull’esempio di Cristo. È uno spirito ben diverso da quello che solo due secoli prima animava i flagellanti tedeschi, che cantavano «O noi poveri peccatori: le nostre iniquità ci hanno sottomessi alla morte eterna». Il mondo era visto allora come sommerso dal male, Lucifero ne era l’autore e il cristiano poteva evitare di esserne contagiato solo rifugiandosi nella penitenza e mortificando duramente i propri sensi.

Una propaggine dello spirito rinascimentale era arrivata anche in Germania e sotto il suo influsso la fede e la carità si sovrapposero alla dura contrizione, troppo chiusa in se stessa e poco aperta alla speranza.

di Benno Scharf