Il cammino della Quaresima

Con lo sguardo della fede

Giovanni Antonio Pordenone (1484-1539), «Gesù chiama Matteo come discepolo»
17 febbraio 2021

La Quaresima è il “tempo forte” che prepara alla Pasqua, culmine dell’anno liturgico e della vita di ogni cristiano. Nel messaggio di Papa Francesco una delle provocazioni per riflettere, meditare e vivere questa quaresima è ricordarsi che essa è «un tempo per rinnovare la fede». La fede. Papa Francesco aveva dedicato alla fede la sua prima enciclica, nel 2013. «La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: “Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv 12, 46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: “E Dio, che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’, rifulge nei nostri cuori” (2 Cor 4, 6)...”» (Francesco, Lumen fidei 1).

Ma la Quaresima è anche un tempo per «accogliere e vivere la Verità manifestatasi in Cristo» che si dirige, e chiede di camminare con lui, verso Gerusalemme: sì, con Lui, lasciandoci «raggiungere dalla Parola...». Per essere raggiunti dalla Parola dobbiamo imparare ad incrociare lo “sguardo di Gesù”: sì, il suo sguardo. Penso a quando Gesù guarda, imprimendo nel suo sguardo qualcosa che fissa la congiunzione nel suo mistero del divino e dell’umano: nella grandezza della sua umanità rivela la sua divinità, e nulla nella fede in Lui può trascurare il nostro essere o non essere umani, cominciando dal nostro modo di guardare, indice del valore che riconosciamo a quanto appare di fronte a noi. E in questo modo esercitiamo una responsabilità delicatissima, quella di far esistere le persone, di liberarle o condannarle all’invisibilità che le scarta dalla nostra attenzione. La Verità che siamo invitati ad accogliere è negli occhi di Gesù che guarda Matteo il pubblicano che vedendo di essere visto è toccato nel cuore. Il Venerabile Beda avverte che quegli occhi dispensano misericordia, l’unica che ci permette di rialzarci, di ricominciare, così da poterlo seguire: Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi: Sequere me (Omelie 21). Lo abbiamo scoperto quando si è trattato di capire cosa significasse per Papa Francesco, aver scelto come motto del suo episcopato a Buenos Aires, e a Roma nel ministero per la Chiesa universale, Miserando atque eligendo, lo vide facendogli misericordia. Gesù con uno sguardo aveva chiamato i suoi discepoli (Marco 1, 16), e in esso preme la compassione quando guarda la folla, «come pecore senza pastore», che lo seguiva (Marco 6, 34). «... La luce della fede è quella di un Volto in cui si vede il Padre. Infatti, la verità che la fede coglie è, nel quarto Vangelo, la manifestazione del Padre nel Figlio, nella sua carne e nelle sue opere terrene, verità che si può definire come la “vita luminosa” di Gesù.   Ciò significa che la conoscenza della fede non ci invita a guardare una verità puramente interiore. La verità che la fede ci dischiude è una verità centrata sull’incontro con Cristo, sulla contemplazione della sua vita, sulla percezione della sua presenza...» (Francesco, Lumen fidei 30).

Per tanto tempo abbiamo ritenuto che credere fosse qualcosa che avesse a che fare con una verità concettuale, una tensione della ragione, un crogiuolo intellettuale, e forse questo, atrofizzando il nostro cuore, ci ha fatto abbassare le palpebre, cercando nel buio e nell’assenza il luogo del mistero e non trovandolo. Ma non era così. Il Figlio di Dio facendosi carne si è fatto sguardo, ha impresso alla Verità la forma del volto, la concretezza di una relazione, la tangibilità di una presenza, chiedendo a noi di aprire gli occhi così da guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, per imparare ad affidarsi all’amore di Dio (Matteo 6, 25-34). Ma ha anche smascherato il giudizio, le nostre pretese, i nostri pregiudizi, fissandoli nello sguardo: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Giovanni 9, 39).

Quaresima è attraversare la storia come «maschere nude» (Pirandello), che ricevono il coraggio di spogliarsi dell’ultimo travestimento, della nudità senza vergogna. E la fede, allora, si prova nello sguardo. Gesù, nel Vangelo, insegna a riconoscere una profondità radicale alla potenza dello sguardo. Lo sguardo non ci esprime soltanto, ci trasforma. Lo sguardo cambia la vita. «Se il tuo occhio è chiaro tutto il tuo corpo sarà nella luce» (Matteo 6, 22). E se il tuo corpo è luminoso «tutto sarà luminoso» (Luca 11, 36). Nella costrizione presente causata dalla pandemia, che ci impone isolamento e distanza, abbiamo l’occasione per allenarci alla ricerca delle sorgenti di luce nelle persone e nelle cose della vita.

La scuola del Vangelo è quella della piccolezza: credere ci dovrebbe far vedere che tutto è velato in un granellino di senape, che la grandezza si nasconde nel piccolo. La parabola evangelica mette a confronto la misura del minimo della fede (Luca 17, 6) e la forma del Regno dei cieli con il più piccolo dei semi (Luca 13, 19). Il passaggio dal seme alla pianta pone fede nella crescita. E l’albero grande che quel piccolo seme diventerà, sarà un riparo per gli uccelli, che nell’esegesi giudaica sono i gentili, così da prospettare per noi in relazione al Regno una missione: agire perché nessuno si senta escluso dalla speranza di Dio.

Il Vangelo ci indica i nemici dello sguardo, ci mostra le trappole disseminate in quella strada che porta a Gerusalemme: l’ipocrisia dei farisei e dei dottori della legge che si preoccupano dell’esteriorità e della visibilità (i primi posti!), che anziché collaborare alla salvezza di Dio, cercano solo di assicurarsi la propria e caricano su altri i pesi che non portano, usando la legge di Dio per escludere (Luca 11, 37-12, 1). Trappole sono le false sicurezze, le seduzioni del possesso, la stoltezza di chi si attacca ai beni, la cupidigia, quell’illusione che mentre nutre affama, dimostrando quanto sia falso far dipendere la vita dai beni (Luca 12, 13-21). E ancora, la pretesa di visibilità (i primi posti, i saluti nelle piazze, i titoli roboanti) contrapposta all’invisibilità del regno di Dio che anche se tarda avverrà: «Un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa» (Luca 12, 46). Esso domanda vigilanza-visione profonda, umiltà, fiducia mentre si attende. Fede è vedere l’assenza come attesa, durante la quale quello che ci serve non è accumulare beni, ma rispondere all’esigenza evangelica, scoprendo dove abbiamo messo il nostro cuore, cosa consideriamo il nostro tesoro: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano» (Luca 12, 33).

La scuola della piccolezza passa dalla mangiatoia, dove piccoli uomini, i pastori, vedono, inconsapevolmente, in un bambino qualcosa di grande. Immediatamente arriviamo agli ultimi giorni, quando la gente lo vedrà entrare a Gerusalemme. Cavalca un’asina, compimento di quanto profetizzato da Zaccaria: «Ecco viene a te il tuo re, giusto, vittorioso, umile, cavalca un asino», aggiungendo «Farà sparire il carro da guerra e il cavallo, e l’arco da guerra sarà spezzato» (Zaccaria 9, 9-10). La cavalcatura designa quello che si debba comprendere di lui. Scegliere un cavallo, più degno di un re, nella simbolica biblica l’avrebbe fatto apparire in guerra, mentre la sua determinazione è disarmare, realizzando quanto affidato alla bocca di Isaia «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, trasformeranno le loro lance in falci» (2, 4). Sono gli altri a volergli fare la guerra. È giusto, di quella giustizia che si qualifica dando ai poveri il loro diritto (Salmo 72, 2). È umile, avrà l’odore della terra, humus, svestito di ogni apparenza, dignitoso nella nudità del povero, semplice, distante dall’arroganza dei potenti, mite. Gerusalemme è spettatrice turbata, e si domandano i suoi abitanti: «Chi è costui?» (Matteo 21, 10). Se lo domanderanno ancora, provandone ribrezzo, coprendosi la faccia per non riuscire a guardarlo, quando in Lui si incastreranno, compiendosi, le parole di Isaia 53, che nel testo latino traduce l’immagine del servo di Jahvé in quella di un lebbroso: Nos putavimus eum quasi leprosum. Ce lo domandiamo anche noi mentre lo seguiremo in questa Quaresima educando i nostri occhi che per ora sono quelli del centurione spettatore della morte di Gesù, il quale avendolo visto morire in quel modo disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Marco 15, 39). Non è solo il velo del Tempio a squarciarsi. Anche quello posto nei nostri occhi che dovranno ogni volta imparare che credere è vedere: vedere Gesù, il Figlio di Dio, la misericordia del Padre, nel fratello che ha fame, che ha sete, che è forestiero, nudo, malato, carcerato (Matteo 25, 31-46).

di Paolo Lojudice
Cardinale arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa - Montalcino