I grattacieli tra spazio e tempo
Anche il più provato dei nostri prossimi ha esigenza di un posto che sia per lui casa

Luoghi di vertigine e respiro

The Shard a Londra, progettato da Renzo Piano
16 febbraio 2021

Per secoli è stato così, come ancora appaiono all’orizzonte, improvvisamente, città oggi di provincia e un tempo gloriose. Chartres, per nominarne una: raccolta attorno alla sua cattedrale, che emerge su tutto, visibile a chilometri di distanza, soverchiante la scala di ogni altro edificio, a legare il cielo e la terra segnando un centro, il punto di irradiazione del senso che unifica tutti gli ambiti della vita. L’Europa, prendendo forma attorno a monasteri e cattedrali, ha incorporato una verticalità che l’ha strappata alla nuda vita, facendo delle sue città veri snodi di cultura: spazi non solo di lavoro e di scambi, ma luoghi dello spirito, laboratori di diritto e di libertà.

Lo skyline delle metropoli europee è rapidamente cambiato, ma non certo a discapito della verticalità. Anche là dove le cattedrali sono divenute invisibili, ad averle surclassate è la proliferazione di grandi edifici che raccontano in tutte le sue contraddizioni l’umano desiderio di toccare il cielo. Urbanisti, sociologi, storici e filosofi, ma poi fotografi, registi, artisti e oggi studiosi del clima e del paesaggio ci garantiscono analisi accurate e affascinanti narrazioni del mutamento profondo del profilo urbano. Eppure, il rapporto tra orizzontale e verticale registra essenzialmente la rivoluzione di tutti gli equilibri consolidati, il venir meno di un ordine condiviso e coerente, di un senso riconoscibile e ben presidiato. Se in altri continenti la corsa verso l’alto di grattacieli che ormai si perdono fra le nuvole sembra ricalcare il racconto biblico di Babele, le torri tutte diverse e tutte uguali delle cities europee non parlano certo di crescita demografica, né di un nuovo rapporto con il suolo o di modelli alternativi di convivenza, ma di finanza e di affari. Di ricchezza, quindi, e di una crescita rapida, verticale; non però equilibrata, né diffusa, né veramente pensata.

Certo, tutto questo esprime libertà, nella misura in cui cancella anche visivamente il dominio di uno solo — il vescovo, il principe — e fa spazio a molte scene umane. Sarebbe ingenuo non rilevare, però, negli sbalzi di altezza, nel disintegrarsi del reticolo urbano, nel moltiplicarsi dei riferimenti, l’intensificarsi delle disuguaglianze e delle forme visibili o segrete di disagio. Complessità, provvisorietà, incertezza radicale. Chi ha costruito monasteri e cattedrali non indugiò mai nelle nostalgie, ma dall’interno della vita diffuse un’armonia che non smette di rendere abitabili le contraddizioni. Mai ritorneremo alla città medievale, né vogliamo rimpiangere ciò che dal di dentro nessuno di noi ha vissuto. Seppur sperando che in qualche punto almeno del vecchio continente l’aggressività edilizia non ne oscuri la bellezza, la sfida che ci sta davanti è quella di una nuova sintesi. Tra orizzontale e verticale, certo. Tra terra e cielo. Perché l’incarnazione — e per gli antichi l’ordine stesso del cosmo — si costituisce attorno a questi assi. Tutti — credenti e non credenti, ricchi e poveri, europei e immigrati — abbiamo ben chiare le opportunità inscritte nel nostro tempo. C’è però un respiro da alimentare, un rapporto col cielo da ritrovare. Non lo garantisce un ufficio all’ottantasettesimo piano del Laktha Center di San Pietroburgo o nel The Shard di Londra. Di per sé, nemmeno la consuetudine con una cattedrale, se tanto stanco e macchiato di scandali si è fatto il nostro cristianesimo.

Appassisce infatti l’umano dove gli occhi non si possono alzare, dove lo sguardo non è rapito almeno per un attimo dalla prospettiva di ogni giorno. Si sono costruite molte chiese nell’ultimo secolo: quando l’orizzontale ha vinto, ha vinto la piattezza. Ci sono infatti riti, c’è un radunarsi, che chiedono soffitti diversi da quelli di casa, per altro a loro volta sempre più bassi. C’è un’esigenza del cuore, ma anche interna ai gesti che rendono contemporanea la salvezza, di una luce che tutto avvolga, tutto penetri, tutto abbracci; un’esigenza che invoca volume, altezza, eccesso. Non sarà la gara che nelle campagne italiane fu quella al campanile più alto, non sarà ostentazione di forza e nemmeno un ritorno del monumentale. Se ne parlò in Francia, alla fine del secolo scorso, quando a un’ottantina di chilometri da Chartres si tornò a costruire una cattedrale, tra i grigi palazzi della periferia parigina, a Evry. Dopo decenni di chiese invisibili, ecco sorgere un segno potente, ma non prepotente, a misura di una vertigine che interroga e consola. Il moderno non sopporta infatti la monumentalità: del vangelo ha come incorporato l’energia nuda, che è fragile, ma lascia il segno. Come la libertà, come le grandi idee, come la stessa fede. Altissime ed essenziali. Nel mondo globalizzato, in cui i grattacieli sono condensato delle maggiori tensioni e contraddizioni, occorrono spazi la cui altezza si apprezzi forse più dall’interno che dall’esterno. Che siano fuori un’interruzione, un promemoria e un invito, ma dentro un sollievo, una liberazione, una gloria. Perché anche l’ultimo, il più provato, il più fragile dei nostri prossimi ha esigenza di un luogo che sia per lui casa e gli riveli la dignità che lo pone unico tra fratelli e sorelle sotto il cielo aperto.

di Sergio Massironi