«Beati gli inquieti» di Stefano Redaelli

Volti e voci
contro l’indifferenza

Salvador Dalí, «Tentazioni di Sant’Antonio» (1946)
15 febbraio 2021

«Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega». È Wittgenstein a pronunciare la massima filosofica sull’atto — necessario e molto spesso spaventevole — di scavare dentro se stessi. Porsi domande è semplice, trovare risposte più complicato. Beati gli inquieti (Castel di Sangro, Neo Edizioni, 2021, pagine 208, euro 15) di Stefano Redaelli compie proprio quest’operazione. Antonio, il protagonista, si presenta al lettore come ricercatore universitario ultratrentenne, desideroso di scrivere un libro sulla follia. Fa, dunque, ingresso in un centro di riabilitazione psichiatrica (Casa delle farfalle) per “studiare” le persone con disagio mentale che da tempo vi risiedono.

Aggirandosi — dapprima quasi con aria di superiorità — per le stanze e gli spazi comuni della struttura, conoscendo gli ospiti e instaurando con loro relazioni empatiche, l’uomo capirà d’aver irrimediabilmente sbagliato a scegliere l’oggetto della sua ricerca. Il punto, del resto, non è comprendere cosa sia la follia, quanto domandarsi: «Sono io folle?». Man mano che Antonio scopre, s’interroga e scava, va, pertanto, incontro a un importante colpo di scena, ma soprattutto assiste a un’autentica inversione di ruoli, seguita dallo sgretolamento delle iniziali certezze («I matti sono liberi. Noi no»).

C’è poi da dire, a prescindere dalla trama centrale — che appunto verte sullo scoprire o riscoprire il proprio io —, che il volume di Redaelli offra diversi spunti su cui riflettere. Il primo riguarda l’abbandono delle persone che presentano un disturbo mentale. Nella Casa delle farfalle — tra gli “inquieti” del titolo, che richiama le Beatitudini del Vangelo secondo Matteo (5, 1-12a) — vivono pure Carlo, Simone, Cecilia, Marta e (lo stesso) Angelo: ognuno di loro ha una storia che sembra disinteressare il mondo esterno. «Il pomeriggio ci sono visite. Non si vede nessuno. Simone mi spiega come stanno le cose. “Ci stanno alienando, le famiglie, gli amici, non viene più nessuno; i vecchi amici non esistono più. È pazzesco”». Lo racconta con tono mesto Antonio, in seguito aggiungendo: «Non mi dà pace il pensiero che nessuno riceva una visita». Così tra inquietudini e beatitudini — nel corso della monotona routine a cui gli ospiti sono relegati e mentre «solo due settimane a volte sembrano anni» —, uno stimolo esterno diventa preziosissimo. Un esempio può essere, come effettivamente avviene per gli uomini e le donne del centro, la lettura de Il piccolo principe o, ancora, il laboratorio teatrale che si propone di inscenarlo, la condivisione di una poesia. La scrittura, anch’essa, ha un significato terapeutico.

Ed è proprio questo il secondo spunto rintracciabile nelle pagine del romanzo: l’arte, in tutte le sue forme, può avere una valenza curativa all’interno di un più ampio percorso. Di conseguenza, scrivere diventa per il “ricercatore-paziente” Antonio «una specie di collante per riattaccare pezzi di vita sospesi nell’aria», «aiuta a fare silenzio e sentire la voce di Dio» e a «cercare quello che c’è dentro, oltre questo spazio in cui la follia è incubata». Scrivere è scoprire le carte, è accudire, perché implica mettere nero su bianco la «paura ancestrale nei riguardi di quella forma enigmatica di esperienza umana che chiamiamo follia, continuando a ignorarne il senso più profondo».

Beati gli inquieti è, in definitiva, testimonianza rielaborata, flusso di coscienza, ricerca spirituale, denuncia di indifferenza, insieme di volti e voci. È principalmente un invito a seminare il bene, a prendere in mano la vanga con lo scopo di non distogliere lo sguardo da sé e dagli altri, non avendo timore della verità («”Non crescerà mai niente”. Carlo raccoglie una manciata di terra, la tiene in mano, la soppesa, poi la lascia cadere tra le dita. “Sabbia, erbacce. Ci potrebbe crescere un prato, ne ho fatti a migliaia, io lo so come si deve fare”. “La sai usare la vanga?”. “Non ci ho mai provato”»). Occorre sbrigarsi insomma, non esistono giustificazioni per non farlo.

di Enrica Riera