Suor Anne e la vita nel più grande carcere d’Europa in tempi di pandemia

Il rischio di una doppia pena

 Il rischio di  una doppia pena  QUO-036
13 febbraio 2021

«Una sorta di doppia pena», che crea e alimenta numerose paure tra i detenuti, il cui accompagnamento medico e spirituale si è rivelato tanto più fondamentale in questi ultimi mesi: è quanto ha osservato in questi tempi di pandemia suor Anne Lécu, teologa domenicana, da più di vent’anni medico nel carcere di Fleury-Mérogis, a sud di Parigi, il più grande d’Europa. La religiosa, autrice di numerose opere tra cui Hai coperto la mia vergogna e Il senso delle lacrime, spiega a «L’Osservatore Romano» come detenuti, personale curante e cappellani hanno dovuto affrontare situazioni inedite, dimostrando a volte una grande creatività per continuare a rimanere in contatto in tempi di confinamento, nonostante i numerosi divieti imposti per motivi sanitari. In reazione al «caos» provocato dalla crisi sanitaria, suor Anne segnala un aggravamento delle condizioni delle persone che soffrono di depressione e di disturbi alimentari. E ricorda quanto sia necessaria la “tenerezza divina”, fatta di contatti, amicizia, affetto e convivialità.

Dall’inizio della pandemia, come si è adattato il sistema carcerario francese alla situazione? Quali sono state le priorità?

Come tutti, abbiamo dovuto adattarci e cercare di organizzarci in un arco di tempo molto limitato. Misure di lockdown, riduzione dell’attività ambulatoriale per favorire la sorveglianza delle persone vulnerabili, isolamento delle persone sospette, poi test quando ne avevamo a disposizione. Questo corrisponde alla nostra missione: infermieri penitenziari, in Francia siamo sotto la supervisione del ministero della salute. Le persone nelle mani della giustizia devono ricevere le stesse cure di coloro che non sono incarcerati. È in ogni caso lo spirito della legge del 1994 che ci ha collegati al ministero della salute, 26 anni fa.

Inoltre, abbiamo rilasciato molti certificati medici per facilitare la liberazione anticipata speciale dei detenuti vulnerabili, e i giudici hanno fatto di tutto per agevolare queste scarcerazioni.

Il carcere è per definizione un luogo di isolamento: come vivono i detenuti questa crisi sanitaria? Sono psicologicamente più “preparati” ad affrontare questa pandemia? Come giudicano il comportamento delle persone “al di fuori”?

Ovviamente si tratta in un certo senso di una pena doppia per i detenuti, soprattutto durante il primo lockdown, molto severo, durante il quale le sale delle visite sono state chiuse e ogni attività è stata interrotta. Fortunatamente, approfittando della bella stagione, la direzione carceraria del mio istituto ha organizzato anche iniziative all’aria aperta. Inoltre, il governo aveva già deciso di installare un telefono in ogni cella e l’istituto femminile in cui mi trovo ha avuto la possibilità di disporre del telefono fin dall’inizio del blocco, il che ha addolcito un po’ le cose. In ogni caso ovviamente non si può dire che i detenuti siano preparati meglio degli altri ad affrontare una pandemia. Nessuno è preparato per questo. D’altronde erano molto preoccupati, consapevoli che la propagazione dell’epidemia in carcere poteva provenire dal personale infermieristico o carcerario. Ecco perché si sono sentiti rassicurati quando hanno tutti ottenuto le mascherine.

Viceversa, la promiscuità forzata significa più rischio di contagio, in particolare nei centri carcerari sovraffollati.

Certo, la promiscuità è un fattore aggravante. L’abbiamo visto soprattutto durante il secondo lock-down, perché lì non era previsto un massiccio sconto di pena come durante il primo, e in alcuni istituti, il ritardo nell’isolare i detenuti venuti in contatto con le persone contagiate ha permesso all’epidemia di progredire.

Quali sfide etiche pone questa pandemia per l’ambiente carcerario? Quali sono i detenuti più a rischio?

Questa epidemia provoca il caos e il caos a volte può ribaltare le situazioni. Occorre quindi sia cogliere le opportunità che si presentano per curare meglio la salute delle persone detenute, sia al tempo stesso fare attenzione a non essere indotti ad accettare alcune disfunzioni che poi rischiano di diventare permanenti. Siamo attualmente sotto forte pressione da parte delle prefetture che chiedono al personale curante di effettuare test molecolari al fine di facilitare le espulsioni dal territorio nazionale dei detenuti che hanno avuto come sanzione il divieto di soggiorno in Francia. Tuttavia, noi medici non dipendiamo dal ministero della giustizia o dell’interno. E praticare un test per l’espulsione a una persona per la quale, tre giorni prima, abbiamo fatto un attestato affinché rimanga nel territorio per gravi motivi di salute ci mette in una posizione impossibile.

Come si è svolta la cura pastorale dei detenuti, considerando che i cappellani non erano autorizzati ad entrare nelle carceri?

È stato molto complicato ma si è assistito a iniziative speciali, come la creazione di un “numero verde” gratuito per permettere ai detenuti di telefonare a un cappellano che si rendeva disponibile in una determinata fascia oraria. Il feedback è stato molto interessante. Purtroppo non è stato possibile rendere questo progetto definitivo. I cappellani hanno enormi sfide da superare: in particolare, dopo essere stati via per mesi, come possono riprendere la loro missione?

A quale riflessione teologica ha portato la sua esperienza di questi mesi?

Credo che sia essenziale riflettere sulla “presenza reale”. Alcune cose — le più importanti nella vita — si possono fare solo concretamente: coprire colui che ha freddo, guarire, consolare. Ci sarebbe anche una riflessione da fare sulla celebrazione eucaristica di cui spesso siamo stati privati, e sul posto che occupa la Parola di Dio in questo tempo. Chi si è preso la responsabilità di uscire per incontrare i più deboli (penso ad esempio alla pastorale dei funerali: alcuni hanno organizzato cerimonie all’aperto, nel loro giardino), sta meglio psicologicamente di chi ha non ha trovato il modo di incontrare gli altri. È anche una linea di riflessione interessante in termini di etica.

Cosa può insegnarci questa pandemia nel nostro rapporto con il corpo?

Credo si capisca meglio che il corpo non è virtuale. Esplorare la questione dell’incarnazione è auspicabile. Mi sembra che uno degli effetti collaterali molto gravi della pandemia si esprime attraverso il numero elevato di persone che soffrono di depressione, disturbi alimentari (per i più piccoli in particolare) e dall’aggravamento delle patologie psichiatriche. Per vivere, come diceva così giustamente il teologo e filosofo Maurice Bellet, abbiamo bisogno di mangiare, bere, respirare, dormire, e soprattutto forse di “tenerezza divina”: contatti, amicizia, affetto, abbracci, convivialità... E potremmo prolungare l’elenco: dobbiamo arricchire noi stessi attraverso il teatro, il cinema, la musica, tutto ciò che condividiamo con gli altri e che cementa la nostra vita. In una visione cristiana, il più spirituale è sempre il più incarnato.

di Charles de Pechpeyrou