«Leopardi moralista» di Chiara Fenoglio

L’afflato del divino

A. Ferrazzi, «Ritratto di Giacomo Leopardi» (1820)
12 febbraio 2021

Critica letteraria e ricerca storica non sempre vanno a braccetto. Una delle vittime di questa lontananza tra specialisti è stato a lungo Giacomo Leopardi, universalmente riconosciuto come uno dei maggiori poeti italiani ma collocato spesso in una sorta di spazio fuori dal tempo, considerato pensatore astratto, lontano dagli accadimenti violenti che avvenivano in Italia negli anni nei quali visse.

Leopardi nacque nel 1798 e si spense nel 1837. Quando si combatté la battaglia di Waterloo aveva diciassette anni e ventitré all’epoca dei moti del 1921. Trascorse la vita immerso in un’epoca dominata dalle tensioni e dalle aspettative che portarono al Risorgimento e si concretizzarono nella nascita del Regno d’Italia. Non fu un processo indolore e una delle contraddizioni che lo caratterizzarono fu l’opposizione tra cattolici e anticlericali, che si tradusse in una lacerazione ricomposta solo nel Novecento inoltrato. In realtà la penisola aveva già conosciuto una riunificazione nel periodo napoleonico, durante il quale si trovò divisa in tre aree, ma tutte rette da amministrazioni francesi facenti capo in definitiva al governo di Parigi: Piemonte, Lombardia, Toscana e Lazio in modo diretto, dato che erano state annesse all’impero.

Napoleone interpretava i rapporti con la Chiesa in senso costantiniano, al limite dello strumentale, e non esitò a deporre, imprigionare e deportare due Pontefici. La guerra di Spagna certificò l’incompatibilità di alcune sue pretese politiche con la realtà della fede popolare.

Leopardi si trovò a vivere in prima persona più ancora che a essere testimone della contrapposizione che si trovava alla radice della cultura risorgimentale, alla quale il mondo cattolico pure partecipò a lungo in forme autonome. Nato in una famiglia di forti tradizioni cattoliche, formatosi sui testi della ricca biblioteca paterna fortemente orientata in senso religioso, sviluppò compiutamente una critica pessimistica nei confronti del credo cattolico nella forma che l’esperienza domestica gli aveva fatto incontrare. Questo percorso convinse molti, anche in maniera strumentale, di una sua posizione radicalmente anti-cristiana.

Senza preoccuparsi di scavare troppo a fondo nella complessità dell’evoluzione del pensiero leopardiano, la cultura laica ne fece dunque uno dei campioni dell’anti-cristianesimo nostrano e solo di recente una critica più avvertita ha iniziato a problematizzare la questione, arricchendo e approfondendo la riflessione sui testi sia poetici che filosofici del recanatese. Un aiuto in questa direzione viene dal recente Leopardi moralista di Chiara Fenoglio (Venezia, Marsilio, 2020, pagine 176, euro 12) che raccoglie e sistematizza alcuni scritti della studiosa dedicati all’opera leopardiana. Una particolare attenzione viene rivolta a La Ginestra, penultima lirica scritta dal poeta e comunemente ritenuta suo testamento anche ideologico. In particolare la Fenoglio si concentra sull’epigrafe che precede il testo, tratta dal vangelo di Giovanni «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce», testimonianza di un’attenzione leopardiana alle Scritture che non viene meno nel corso di tutta la vita e che lo riconduce sempre ai temi esplorati in gioventù.

Non ci sono dubbi sul pessimismo del poeta, sulla sua interpretazione negativa della società umana e della sua evoluzione, con una sostanziale accettazione del mito rousseauiano del bon sauvage che rimanda a una lettura del Genesi e del peccato originale dagli orizzonti cupi. Non si può negare d’altra parte la stretta vicinanza ad esempio tra alcuni passi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e il Qoelet. Segnatamente nei versi 93-96 «di tanto adoprar, di tanti moti / d’ogni celeste, ogni terrena cosa, / girando senza posa,/ per tornar sempre lá donde son mosse» paralleli all’incipit «Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; / gira e rigira e sopra i suoi giri il vento torna» (Qoelet 1, 6). Anche Qoelet viene ritenuto da alcuni pessimista in modo radicale e scettico sul divino, ma la sua appartenenza al canone ebraico e poi cristiano non è mai stata messa in discussione.

di Sergio Valzania