«A ciascuno il suo» e «L’Osservatore Romano»

Il giallo dell’Unicuique suum

Gian Maria Volonté e Mario Scaccia in una scena del film tratto dal romanzo di Sciascia (Elio Petri, 1967)
11 febbraio 2021

Pubblichiamo un estratto dal romanzo «A ciascuno il suo», pubblicato nel 1966 da Einaudi.

Erano già passati i tre giorni del lutto stretto, per cui Laurana ritenne di non commettere indiscrezione andando dall’arciprete Rosello per chiedergli in prestito quel numero dell’«Osservatore Romano», tra il primo luglio e il quindici agosto, che conteneva un articolo su Manzoni di cui non poteva fare a meno nel suo lavoro. L’arciprete era zio della moglie del dottor Roscio: molto affezionato, ché la ragazza era cresciuta in casa sua fino al matrimonio. Quella dell’arciprete era una grande casa, tenuta su da grandi proprietà indivise: e una ventina d’anni prima, convivendovi i due fratelli sposati con le loro famiglie, dodici persone formavano una sola cosa, e in più l’arciprete che ne era il capo non soltanto spirituale. Poi la morte e i matrimoni avevano trascinato via nove persone, sicché ne rimanevano quattro: l’arciprete, le due cognate, un nipote fino a quel momento scapolo, che era l’avvocato Rosello.

L’arciprete era in sagrestia, stava svestendosi dei paramenti della messa. Accolse benissimo il professore, quasi gliel’avesse mandato il cielo.

Dopo dieci minuti di cerimonie vennero a parlare dell’atroce delitto, dell’indole docile e generosa del dottor Roscio buonanima, del dolore inconsolabile della vedova. «Terribile delitto. E poi così oscuro, così misterioso» disse il professore. «Non tanto» affermò l’arciprete. Una pausa, e poi «Vede, quello là» cioè il povero farmacista «aveva le sue tresche. Non se ne sapeva niente, d’accordo. Fatto sta che è stato prima avvisato e poi ammazzato: che è il procedimento tipico della vendetta. E il mio povero nipote c’è andato di mezzo». «Lei crede?».

«E che altro si può pensare? Questioni d’interesse, quello, non ne aveva con nessuno, a quanto è stato accertato. Non resta da pensare che ad una tresca. E a un padre, a un fratello, a un fidanzato che ad un certo punto l’offesa gli brucia e la fa finita: e con tanta furia che non vede nemmeno che c’è un innocente di mezzo». «È possibile, ma non è certo». «Certo? Ma di certo, caro professore, c’è solo Dio. E la morte. Certo no, si capisce: ma gli elementi che ci avvicinano alla certezza ci sono. Primo: la lettera avverte il farmacista che pagherà con la morte una sua colpa; non dice quale, ma chi la scrisse supponeva che il ricordo di quella colpa, se lontana, dovesse subito affiorare in chi l’aveva commessa (e dunque grave colpa non dimenticabile) o sapeva di riferirsi a cosa vicina, in atto per così dire. Secondo: se, come lei sa bene, poiché mi hanno detto che era presente, il farmacista non voleva presentare denuncia, almeno il sospetto che dalla denuncia potesse svolgersi qualcosa di poco onorevole per lui, doveva averlo: almeno il sospetto. Terzo: non pare che la vita familiare scorresse del tutto tranquilla, in casa del farmacista».

«Non so... Ma qualche obiezione da fare l’avrei. Primo: il farmacista riceve una minaccia chiara, diretta. E che fa? A una settimana di distanza offre al suo nemico l’occasione migliore per attuare la minaccia: se ne va a caccia. La verità è che non l’ha presa sul serio, che ha creduto ad uno scherzo: e dunque nessuna colpa, né lontana né presente. O meglio: visto che la minaccia è stata così ferocemente attuata bisogna pensare ad una colpa molto lontana, talmente lontana da parere incredibile uno scatto così ritardato della vendetta. Oppure bisogna pensare ad una colpa commessa inavvertitamente: un gesto, una parola, qualcosa insomma cui non si fa caso e che invece colpisce indelebilmente una mente malata, esasperata. Secondo: nessuno, vedendo la lettera, ha creduto fosse da prendere sul serio. Nessuno: e questo è un paese piccolo, in cui è difficile sfugga alla gente una relazione, per quanto segreta, un vizio, per quanto nascosto... In quanto al fatto che non voleva presentare denuncia: è vero; ma appunto in conseguenza del significato di scherzo che lui e gli amici attribuivano alla lettera».

«Può darsi abbia ragione lei» disse l’arciprete: ma gli si leggeva negli occhi che restava fermo nella sua opinione. Poi invocò «Dio mio, getta la tua luce e scopri il vero: per la giustizia e non per la vendetta». «Speriamo» disse il professore, come amen. Poi disse la ragione per cui era venuto a disturbare.

«L’Osservatore Romano» assaporò l’arciprete, soddisfatto che un miscredente ne avesse bisogno. «Sì, mi arriva, lo leggo: ma in quanto a conservarlo... Conservo le riviste: “La Civiltà cattolica”, “Vita e pensiero”; ma i giornali no... Il sagrestano va a prendere la posta, me la porta qui: io poi mi porto a casa le lettere private e i giornali. Dopo che li ho letti i giornali diventano, diciamo così, di domestico dominio: “L’Osservatore Romano”, “Il popolo”... Ecco, vede» tirando fuori dal mucchio della posta «L’Osservatore» «ora me lo porto a casa, subito dopo pranzo lo leggo e stasera stessa, è certo, le mie cognate o la cameriera se ne serviranno per involgere qualcosa o per accendere il forno. A meno che, si capisce, non ci sia un’enciclica, un discorso, un decreto di Sua Santità». «Si capisce».

«Se questo numero, che è dell’altro ieri, le occorresse...» glielo porse piegato in otto com’era. «A me basterà scorrerlo ora, qui... Del resto sono in arretrato anche coi giornali, quest’ultima settimana per me è stata un inferno...». Laurana aveva aperto il giornale, si era incantato sulla testata. Eccolo qui l ’unicuique , tale e quale quello che era affiorato dal rovescio della lettera. Unicuique suum , a ciascuno il suo. Bei caratteri di stampa, la coda della q elegantemente falcata. Poi le chiavi incrociate e il triregno e, con gli stessi caratteri, non praevalebunt . A ciascuno il suo: e anche al farmacista Manno e al dottor Roscio. Quale parola c’era dietro l’ unicuique che la stessa mano che aveva spento poi due vite aveva ritagliato e incollato sul foglio? La parola condanna? La parola morte? Peccato non poter più dare un’occhiata alla lettera, ormai chiusa nel segreto fascicolo giudiziario.

«Non faccia complimenti» diceva l’arciprete «se questo numero le serve, lo prenda». «Come?... Ah sì, grazie. Ma no, non mi serve».

Posò il giornale sul tavolo, si alzò. Era turbato, improvvisamente insofferente dell’odore di legno vecchio, di fiori sfatti, di cera che la sagrestia esalava. «Le sono tanto grato» disse porgendogli la mano, che l’arciprete strinse tra le sue con quell’amore dovuto agli smarriti. E infatti «A rivederci, ché spero verrà a trovarmi, qualche volta» salutò l’arciprete. «Con tanto piacere» rispose Laurana.

Uscì dalla sagrestia, attraversò la chiesa deserta. La piazza non dava un filo d’ombra, attraversandola considerò quanto si stesse bene in chiesa e in sagrestia; e la considerazione gli si mutò in ironica metafora: per il parroco di Sant’Anna, per l’arciprete. Ci stavano bene davvero, ciascuno a modo suo. O forse, stando a quel che diceva la gente, tutti e due allo stesso modo e diverse erano le apparenze. Divagava: per una specie di sottile, inconscio amor proprio, evitava il punto della delusione, della sconfitta. Ed era questo: anche ad accertare da quale numero dell’«Osservatore» era stato ritagliato l’ unicuique appiccicato alla lettera, sarebbe stato impossibile sapere dove, dalla casa dell’arciprete, quel giornale era andato a finire. Perché, manco a pensarlo, l’arciprete, le cognate, il nipote, la cameriera non potevano entrarci per niente. Dall’uso che in quella casa si faceva del giornale, dopo che l’arciprete ne aveva corso le pagine, c’era da pensare a una minima percentuale di lettori che, come il cappellano di Sant’Anna, ne facesse raccolta: e che come involucro di un pacco fosse pervenuto all’autore della lettera (e dei delitti) quel numero, quel pezzo. Senza dire che nel capoluogo il giornale lo vendevano nelle edicole e chiunque, per preciso disegno o casualmente, avrebbe potuto comprarlo.

Tutto sommato, a non far caso all’ unicuique la polizia si era comportata con buon senso. L’esperienza, non c’è che dire. Tempo perso mettersi a cercare un ago in un pagliaio, quando si sa che è un ago senza cruna, che non si può infilare alla sequela delle indagini. Lui, invece, era rimasto abbagliato da quel dettaglio. Un giornale che aveva due soli abbonati in tutto il paese: un indizio preciso, che apriva la strada dritta delle indagini. E invece metteva in un vicolo cieco.

Ma non è che la polizia, che si era avventata sul mozzicone di sigaro, stesse giocando una carta migliore. Di marca Branca, era stato accertato: e in paese li fumava soltanto il segretario comunale, persona al di sopra di ogni sospetto non solo, ma forestiero e da appena sei mesi residente nel paese. «“L’Osservatore” vale il sigaro Branca» si disse Laurana «ma lascia correre la polizia dietro al sigaro e tu sull’“Osservatore” mettici una pietra sopra». A casa però, mentre sua madre apparecchiava per il pranzo, annotò su un foglietto «Colui che compose la lettera ritagliando le parole dall’“Osservatore”: a) acquistò il giornale nel capoluogo per un più di sottigliezza, nell’intento di aggiungere confusione all’indagine; b) si trovò fortuitamente sottomano quel giornale e non si rese nemmeno conto di quale giornale si trattasse; c) era talmente assuefatto a vedersi intorno quel giornale da considerarlo un giornale come un altro, senza riflettere sulle particolarità tipografiche e sulla limitata e quasi professionale diffusione». Posò la penna, rilesse l’annotazione; poi minutamente lacerò il foglietto.

di Leonardo Sciascia