Amelia Rosselli a 25 anni dalla morte

La sincerità
incandescente dei poeti

Amelia Rosselli
10 febbraio 2021

Anche Federico Fellini le ha reso omaggio, con un cameo discreto e indiretto ma inequivocabile, a detta degli amici; ne La dolce vita la bionda poetessa inglese che conversa con Marcello, il protagonista, a casa del suo amico Steiner, parla con la sua franchezza, con le sue categoriche opinioni sul mondo, con la sua allegria un po’ cinica per troppo pudore. «Oracolo alcolico» si autodefinisce, la poetessa anglosassone, alter ego biondo di Amelia Rosselli, con amaro understatement, per non prendersi troppo sul serio, ma non esita a chiedere agli amici che cosa conta davvero per loro, che cos’è che sostiene la loro vita. Non esita a fare domande «vere», scomode. Quelle che non evita neanche il padrone di casa, Steiner, in una delle scene più belle del film.

«Arrivò aureolata di una bellezza diafana — scrive Sandra Petrignani, raccontando il suo primo incontro con la poetessa morta a Roma 25 anni fa, l’11 febbraio 1996 — di un modo di incedere principesco, di una stravaganza sfuggente e ridanciana. Sì, raccontava fatti tragici, eppure rideva dello sgomento che suscitava. Raccontava di sé senza reticenze, con la sincerità incandescente che hanno i poeti puri. La voce era indimenticabile, arrotolata intorno alle erre, legnosa, oracolare, con un leggero accento inglese che aumentava la distanza fra la sua persona, fatta sicuramente della pasta degli angeli, e le cose terrene. Mi diceva degli elettroshock che aveva subito e di certe “persecuzioni” cui era sottoposta, della musica che aveva studiato tanto e che si era trasformata in poesia».

La musica era stata la sua prima vocazione, rifugio di bellezza e ordine e armonia in una vita di continui viaggi, fughe e sradicamenti, dalla Francia, all’Inghilterra e all’Italia, segnata precocemente dall’impatto col male, dopo l’assassinio di suo padre, Carlo Rosselli, e di suo zio Nello a Bagnoles-de-l’Orne, paese termale della Normandia dove Carlo era andato a curarsi.

Alla musica, Amelia ha dedicato lunghi anni di studio: composizione, etnomusicologia, violino e il pianoforte, prima di scegliere definitivamente il suono delle parole intrecciate nei versi. Nel frattempo, però, ha progettato uno strumento, un piccolo organo, e le è capitato di suonare insieme a John Cage e di essere una sorta di colonna sonora vivente in uno spettacolo di Carmelo Bene.

Al suo ricordo (ai tanti aneddoti di una vita condivisa, anche se sempre a reverenziale distanza) Renzo Paris ha recentemente dedicato un libro, Miss Rosselli (Milano, Neri Pozza, 2020, pagine 236, euro 18). «In via del Corallo 25, a Roma — si legge nella quarta di copertina — nei pressi di piazza Navona, si sale su per una scala abbastanza anonima per accedere, all’ultimo piano, al minuscolo appartamento mansardato in cui abitava Amelia Rosselli. L’11 febbraio 1996, la poetessa, nata a Parigi dall’esule antifascista Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Catherine Cave, aprì la finestra di quell’appartamento e, una volta sul balconcino, scavalcò l’inferriata e si lasciò cadere dal quinto piano giù nel cortile. Concluse così la sua vita, una vita sprofondata nel mare nero dell’inconscio, dal quale soltanto con la poesia le era stato permesso talvolta di riaffiorare. (…) Col suo accento inglese, arrotava la erre e parlava degli spettri che affollavano la sua mente».

Era tuttavia una star della poesia, «venerata da tutti — continua Paris — circondata da una cerchia di amici fedeli negli anni in cui, a Roma, si veneravano i poeti». Una venerazione che continua, e anzi si accresce nel tempo, perché la sua storia è diventata il simbolo di una fusione totale di arte e vita in un’unica trama di biografia e versi.

«Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo — era solita dire Amelia Rosselli — quando sai com’è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi». La scelta della poesia la trasforma, per i “fan” che tuttora cercano i video delle sue letture su Youtube, in una figura carismatica, sciamanica, in un modello di vita, in una possibilità di riscatto dalla banalità apparente del quotidiano. Fino a renderla oggetto, come ebbe a dire Franco Fortini, di «un’equivoca mitizzazione» sfociata in «una inesorabile produzione di kitsch critico-poetico». Ma anche fino a renderla un catalizzatore ancora attivo di ammirazione autentica, generativo di nuove energie e di nuove opere di critica letteraria sui generis.

È il caso di Tutti gli appuntamenti mancati, di Alice Zanotti, (Milano, Bompiani, 2021, pagine 252, euro 18) e del progetto Fragili guerriere portato in scena qualche anno fa (in era pre-covid) dalla poetessa-performer Rosaria Lo Russo.

«Non mi sarebbe mai successo di incontrarla, lo sapevo — scrive Zanotti, l’autrice di un surreale ritratto immaginario di Amelia Rosselli — ma spesso l’ho desiderato come se fosse ragionevole potesse capitare. L’innamoramento porta con sé la curiosità di sapere di più, possibilmente tutto, o almeno tutto il possibile. Ho inventato un luogo immaginario che fosse nostro, così è nato il mio romanzo». C’è una cosa che scrive Iosif Brodskij in Fuga da Bisanzio, nel saggio Per compiacere un’ombra: «Il meno che si possa dire è che ogni individuo dovrebbe conoscere almeno un poeta dalla prima all’ultima pagina, se non per prenderlo a guida nel viaggio attraverso il mondo, almeno per avere un metro con cui misurare il linguaggio». Il suo poeta d’elezione è stato Wystan Hugh Auden. Brodskij racconta di aver incontrato Auden prima nelle pagine di un’antologia di poeti inglesi contemporanei, un libro di seconda mano, poi in una fotografia, anzi in due, due scatti che hanno soddisfatto un bisogno, una curiosità.

Scrive Brodskij: «Si va sempre brancolando alla ricerca di una faccia, si desidera sempre che un ideale si materializzi». Dopo aver letto tanto un autore viene voglia di sapere com’è fatto e quando Brodskij scopre com’è fatto Auden pensa che dietro quella faccia — per niente romantica, ironica o ferita — non ci sia una persona in carne e ossia ma la vita stessa. Ed è questo che si vorrebbe incontrare, dice Brodskij, e che si incontra quando si legge poesia.

Poi è successo che Brodskij abbia davvero conosciuto Auden. Quella prima volta non ha fatto che chiedergli «Mr. Auden cosa ne pensa di», perché era l’unica frase che all’epoca riusciva a pronunciare in inglese senza fare errori. L’ultima volta che l’ha visto — è l’aneddoto che chiude il saggio — era il luglio del 1973. Auden era seduto a tavola e argomentava in merito al salmone freddo. Racconta Brodskij che la sedia era troppo bassa per farlo stare seduto comodo così la padrona di casa aveva avuto un’idea: invece di infilargli sotto un cuscino aveva pensato di usare due volumi dell’Oxford English Dictionary. Per Brodskij, Auden «era l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile».

«Quando ho letto Fuga da Bisanzio — scrive Zanotti — e in particolare il saggio dedicato a Auden, ho pensato che il poeta di cui parlava Brodskij, quello da conoscere e da tenere accanto nel viaggio attraverso il mondo, per me è Amelia Rosselli. Di lei avevo letto Variazioni Belliche, Serie Ospedaliera, Documento, all’inizio del nostro rapporto, che mi viene da chiamare così, un rapporto, una relazione, un innamoramento. Per me è stato facile conoscerne il suo viso, cercando su Google si trovano, tra le altre, le bellissime foto di Dino Ignani».

Foto che la ritraggono «con un indimenticabile viso da ragazzino imbronciato» chiosa Sonia Bergamasco, che legge e ama i versi della Rosselli dagli anni dell’adolescenza, e li usa spesso come esercizio nelle scuole di teatro dove insegna «perché è facile leggere poesie, il ritmo dei versi ti dice già dove andare».

di Silvia Guidi