Nell’anniversario della morte di Giovanni Palatucci, poliziotto, servo di Dio, “giusto fra le nazioni”

Un cristiano coerente
fino al sacrificio

Nandor Glid «Memoriale di Dachau» (1968)
09 febbraio 2021

Laddove finisce il dovere inizia la santità: è ciò che ci ha fatto comprendere, con l’estremo sacrificio del martirio, Giovanni Palatucci, il poliziotto servo di Dio e “giusto fra le nazioni” di cui il 10 febbraio ricorre il settantaseiesimo anniversario della morte, avvenuta di stenti nel campo di concentramento tedesco di Dachau. In un’intervista al nostro giornale, Raffaele Camposano, primo dirigente nonché direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato, racconta alcuni eventi della vita di Palatucci, già commissario di pubblica sicurezza e funzionario alla questura di Fiume, vittima della ferocia nazi-fascista.

La figura del servo di Dio Giovanni Palatucci rimanda immediatamente il pensiero al sacrificio. Chi era quest’uomo?

Volendo sinteticamente definire Palatucci, direi che fu un “uomo coerente” con alle spalle un percorso interiore, vissuto con pienezza e consapevolezza, come uomo, poliziotto, patriota e cristiano. Blaise Pascal diceva che «è dall’uomo stesso che discendono il bene e il male, ed è arbitrio dell’uomo scegliere quale sentiero intraprendere». Palatucci seppe fare la scelta giusta al momento giusto, in piena libertà e volontà. Ciò è chiaramente evidente allorquando, presago, oramai, della sua fine imminente, mise a nudo la sua anima affermando: «Sono rimasto saldo nelle mie posizioni: per la Chiesa, per l’umanità, per la patria, perché questo è il dovere che m’impone la coscienza e la storia nel servizio del mio popolo, il più derelitto di tutti i popoli di questo mondo».

Assumere decisioni anticonvenzionali, talvolta, può rivelarsi scomodo, sino a diventare pericoloso. Palatucci aveva chiaro questo concetto, ma non ne tenne conto. Cosa lo spinse ad agire in tal senso?

Ripercorrendo la vita di Giovanni Palatucci, è evidente che egli non fosse un temerario né un irresponsabile. Ogni sua azione, così come ci viene raccontata dai suoi più stretti collaboratori, era frutto di attenta meditazione, oltremodo sofferta. Anche l’esposizione al rischio fu da lui vissuta come il prezzo da pagare per salvare vite umane. Con l’estremo sacrificio del martirio, Palatucci ci ha fatto comprendere che laddove finisce il dovere inizia la santità. Alla banalità del male egli ha contrapposto la semplicità del bene.

Nell’azione ostinata del commissario Palatucci, che ruolo ha avuto la fede?

Direi che è stato decisivo. Educato fin da piccolo alle cose grandi dello Spirito dalla nonna materna, Carmela, terziaria francescana, morta in concetto di santità, e dagli zii Antonio, Alfonso e Giuseppe Maria, tutti consacrati alla vita religiosa, Palatucci ha seguito la sua naturale vocazione al bene senza cedere alle lusinghe del potere e all’egoismo personale. Essendo un profondo credente nonché un convinto assertore dell’eticità della norma e del valore insopprimibile della dignità umana, non deve farci sorprendere se, di fronte al dilacerante dilemma “disobbedire alla legge iniqua e crudele dell’uomo o seguire i comandamenti di Dio”, egli non abbia esitato a dare una risposta precisa e ad agire conseguentemente.

Poliziotto e martire. Due cose distinte ma forse non così distanti. Cosa ne pensa?

La stragrande maggioranza dei poliziotti considera l’attività svolta in difesa delle istituzioni, delle leggi e della collettività un grande privilegio. Il sacrificio e il senso del dovere sono le costanti che dirigono il loro impegno quotidiano. Non pensare in termini di eticità questo importante ruolo equivarrebbe a svuotarlo di significato. Come intendere altrimenti il sacrifico dei nostri caduti per mano della mafia, del terrorismo e del crimine organizzato? Credo che Giovanni Palatucci abbia saputo coniugare, in tempi oltremodo difficili e complessi, la missione di poliziotto nella massima pienezza possibile, riuscendo a trasmetterne la bellezza e il valore ai suoi collaboratori più stretti che, come lui, misero a repentaglio le loro vite e quelle dei loro cari. Oltremodo carismatico, Palatucci divenne un faro di luce nell’oscurità che stava calando sulle coscienze, nell’ora più buia della storia. Quella di Giovanni è senz’altro, per la Polizia di Stato, una figura esemplare, una testimonianza ancora viva e palpitante intorno alla quale noi tutti, a prescindere dalle credenze religiose di ciascuno, siamo chiamati a interrogarci non una ma mille volte.

La memoria generativa di Giovanni Palatucci sarà tale ogni qualvolta qualcuno si ispirerà al suo esempio di giustizia così intensamente vissuto. In particolare, come deve operare un poliziotto dei nostri giorni secondo giustizia?

Il motto dello stemma araldico della Polizia di Stato Sub lege libertas indica chiaramente che la libertà non può esistere compiutamente senza la legge. Ciascun poliziotto, prima di essere tale, è un cittadino come gli altri, tenuto al rispetto della Costituzione e delle leggi. Il ruolo e le funzioni che gli sono riconosciuti lo pongono, con maggiori doveri e responsabilità rispetto ai comuni cittadini, quale qualificato punto di riferimento delle molteplici istanze provenienti dalla comunità. La sua condotta deve essere, pertanto, altamente professionale per richiamare al rispetto della legge. Quello però che a mio avviso lo deve sempre connotare, così come Palatucci ci ha insegnato, è l’umanità, retaggio comune della nostra nazione che, vissuta con ricchezza interiore, lo faccia agire sempre con la consapevolezza che “chi salva una vita salva il mondo intero”.

Fra le righe della sua vita, è visibile la matita di Dio che corregge lì dove la matita degli uomini sbaglia. Infatti il commissario subì un trasferimento punitivo, ma fu proprio quella circostanza a rivelarsi come occasione unica per testimoniare il suo amore incondizionato. Cosa accadde effettivamente?

Divenuto funzionario di pubblica sicurezza, Palatucci manifestò fin da subito una profonda delusione per come la sua professione — che egli aveva caparbiamente scelto per amore della giustizia fino a scontrarsi con il volere paterno — fosse stata oltremodo burocratizzata e svilita dal regime fascista. Per punirne l’anticonformismo e l’eccessiva “irruenza giovanile” fu relegato dai superiori nella lontana Fiume a dirigere l’Ufficio stranieri. Per questo che potrebbe definirsi un incidente di percorso della carriera, egli si trovò a gestire, nel pieno delle leggi razziali (1938), l’improbo compito di proteggere e salvare quanti più ebrei italiani e apolidi possibile che ricorrevano a lui per sottrarli alla Shoah. Da allora la sua obiezione di coscienza, accompagnata da una profonda fede in Cristo, fu graduale e consapevole. In un mondo di lupi famelici, a Palatucci non si profilò altra soluzione che quella di affrontare il male, a viso aperto, pur consapevole delle conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Alla sua paura subentrò la speranza, all’indecisione la saldezza nella fede. La sua eroicità risiede, per l’appunto, nell’essersi fatto campione di umanità che ha accettato il martirio per divenire testimone autentico di Gesù Cristo.

di Marco Russo