Rileggere i classici

Se il big brother
diventa un fratello maggiore

Particolare dalla copertina del libro edito da Sellerio
09 febbraio 2021

Nuova traduzione per il romanzo di George Orwell 


E pensare che George Orwell, mentre si accingeva a scriverlo, predisse che il suo libro sarebbe stato «un sicuro fallimento». Raramente, invece, un romanzo ha colpito in modo così forte e indelebile l’immaginario collettivo di tutto il mondo come ha fatto, da subito, il suo 1984. Per ritrovare titoli e personaggi così icastici bisogna pescare nei più classici tra i classici del canone occidentale, il Don Chisciotte, Madame Bovary, Robinson Crusoe. Cristallizzazioni di un comportamento, di un periodo, di un trauma, di un pericolo, che diventano immediatamente universali.

Il destino imprevisto del romanzo di Orwell è stato quello di dare il nome a un programma che ha segnato la nascita di un nuovo tipo di intrattenimento televisivo, il reality show, e che, nelle sue varie versioni, è ancora in piena salute dopo vent’anni dal debutto (lunga vita per un format). Il libro, però, potrebbe finalmente scrollarsi di dosso il legame ingrato con il Grande Fratello che osserva e comanda un gruppo di individui rinchiusi in una casa irreale per il voyeurismo del grande pubblico della tv generalista. Potrebbe accadere grazie alla nuova traduzione appena arrivata in libreria, a cura (e nella traduzione) di Tommaso Pincio per Sellerio (Palermo, Millenovecentottantaquattro, pagine 456, euro 15).

Il big brother orwelliano diventa qui, infatti, il «fratello maggiore», traduzione più fedele all’originale, che porta con sé una vicinanza più stretta, una familiarità più inquietante, perché quell’individuo minaccioso e liberticida non è altro che il nostro “fratellone” (in inglese, appunto, big brother), termine che si avvicina alla tenerezza dell’opposto, il “fratellino”, ma che, in questo contesto, assume connotati ancor più terrificanti.

E rileggere il romanzo con queste variazioni conferma quanto sia sottile il potere della lingua di evocare interi mondi con poche, precise parole dal peso specifico particolarmente alto. Nessuno più di Orwell, in quegli anni successivi alla seconda guerra mondiale, denunciava usi pericolosi della parola, sezionava il processo comunicativo letterario e non solo, e della lingua faceva politica nel senso più nobile del termine.

Per questo motivo la revisione di Pincio non si limita al termine più noto del romanzo, ma interviene su una serie di parole chiave e riporta il titolo alla forma che gli aveva dato l’autore, ovvero Millenovecentottantaquattro. Sembrerebbe marginale, questo cambiamento, eppure non è così: in ogni modo dobbiamo essere consapevoli che non si tratta di una data ma di un titolo. Perché ridurre quel messaggio a una data, che fosse l’inverso dell’anno dell’ultima stesura o che fosse una profezia non avveratasi, toglie potenza all’ammonimento di Orwell.

È chiaro a chiunque conosca il romanzo che il «fratello maggiore», con quei baffoni scuri e i tratti aspri, è un calco di Stalin, ma non è Stalin, non è solo Stalin. È anche Hitler, che, come scrive Pincio nella sua introduzione, all’epoca della stesura del romanzo era passato a miglior vita, con grande sollievo dell’umanità. Ma è anche — senza dover fare nomi — chi oggi perpetra una politica totalitarista e che approverebbe di sicuro i «due minuti di odio» quotidiano verso il «nemico del popolo» cui sono sottoposti i cittadini della Londra del 1984, una città che forse balugina davanti agli occhi di chi dimostra in piazza e finisce in carcere per rivendicare la propria e l’altrui libertà. D’altronde Umberto Eco, nel temuto annus terribilis del titolo, chiamato a scrivere una introduzione al romanzo che facesse i conti con il calendario, scrisse che almeno per tre quarti, quel libro non era una distopia, era storia.

Ciò che rende un libro un classico, si sa, è la possibilità di parlare non solo ai propri contemporanei, e la grandezza di questo romanzo continua e continuerà a fare i conti non tanto con i numeri del calendario, quanto con la Storia con la “S” maiuscola. Gli hanno tirato la giacca di qua e di là, come si dice gergalmente, prima chi lo voleva leggere come inconfutabile denuncia del comunismo (la Cia sovvenzionava traduzioni in tutto il mondo durante la “guerra fredda”), poi chi lo accusava di aver tradito gli ideali della rivoluzione, chi vedeva nel nome del protagonista, Winston, un disprezzo verso l’omonimo Churchill e nell’assoggettamento della popolazione una critica a certa politica inglese tra le due guerre.

Con la sua forza dirompente, il romanzo è arrivato anche dove nessuno avrebbe pensato fosse possibile farlo arrivare, in Corea del Nord. Nel 2003, un geniale autore di graphic novels canadese, Guy Delisle, ha pubblicato Pyongyang (uscito in Italia prima per Fusi Orari, poi, dal 2013 da Rizzoli Lizard), in cui ripercorre un proprio viaggio nella città del titolo, durante il quale, come il seme di una pianta vietata, porta nel proprio bagaglio il romanzo di Orwell. Il suo interlocutore nordcoreano, però, glielo restituisce con l’indifferenza di chi abbia letto una lista della spesa, e Delisle, desolato, gli dice, «Beh, non ti preoccupare, è solo fantascienza». In realtà, è fantascienza che esistano luoghi dove quel seme non può attecchire, dove l’indottrinamento è arrivato talmente all’interno della mente umana che, come il Winston Smith del romanzo, si è pronti a tradire tutto e tutti, compresi se stessi, laddove, come è stato scritto, se si baratta la libertà per la sicurezza, si finisce col perdere entrambe.

Che sia in pericolo la dimensione più strettamente personale e intima dell’essere umano (un titolo provvisorio era stato «L’ultimo uomo d’Europa») è chiaro dalle prime pagine del romanzo. Winston acquista un quaderno vuoto, ma sa che «anche senza nulla di scritto all’interno era un oggetto compromettente». Inizia a scriverci il proprio diario, le proprie emozioni, che però inizialmente sono poco più che infantili scempiaggini. Non ha nemmeno lontanamente l’abitudine a percepire le proprie sensazioni e i propri pensieri. E si ritrova con una lingua scarnificata, ridotta, priva di sfumature.

Qui c’è l’altro monito di Orwell: non usare determinate parole significa non riconoscere determinati concetti. Ignorare una sfumatura di linguaggio molto spesso significa ignorare una sfumatura del mondo. Così, sarà la sfumatura dell’amore a portare Winston — e il lettore — verso l’illusione di una rinascita e di una libertà, che però saranno tristemente fallimentari. E la grande distopia non è più solo quella politica, è anche quella dell’animo umano.

di Alessandro Clericuzio