Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

La telefonata

Pablo Picasso, «Donna seduta appoggiata sui gomiti» (1939)
09 febbraio 2021

Una madre attende di sapere l'esito del delicato intervento a cui è stata sottoposta sua figlia


Il cellulare squillò poco dopo le 23. Il buio era fitto e il silenzio una dimensione fisica, quasi: nessuno di noi osava proferire suono e il richiamo vocale ci fece sobbalzare. Non so dire nemmeno ora, a distanza di un anno, che cosa abbia attraversato le camere del cuore. Del mio cuore, intendo. Atri e ventricoli, arterie e vene cave. Di nuovo tubi, incrostati di placche, forse, e impastati da colla di dolori antichi e nuovi. Un gliommero di veleno che chiudeva valvole e faceva scoppiare capillari. Sentii una tachicardia improvvisa e così impetuosa da farmi temere uno svenimento. Non potevo permettermelo, non in quel momento. Non me lo sarei perdonato.

Risposi cercando di controllare il tremito, un parkinson assurdo e fulminante che colonizzava braccia e gambe. Sullo schermo vidi che la chiamata veniva dall’ospedale, riconobbi il numero. Erano loro, l’intervento era concluso, in un modo o nell’altro.

Prima di rispondere, vorrei dire che rividi tutta la vita mia o di mia figlia in un secondo, secondo la peggiore retorica da canzonette o filmoni hollywoodiani. Non mi apparve nulla, invece, davanti agli occhi. Ero troppo concentrata sul battito del cuore, si sarebbe fermato dopo avere ricevuto la notizia? Dipendeva dalla notizia, ovvio. Ma in quel preciso istante il mio organismo era prossimo a un collasso, qualsiasi futuro mi avessero narrato. Eh già, perché al di là del cellulare c’era il racconto di un futuro. Il mio, il nostro, a breve o a lungo termine. Le poche parole dette avrebbero piegato il tempo e determinato scelte.

Io ero al termine della notte dell’anima, come i mistici del medioevo definivano il punto di non ritorno che per tutti c’è, almeno una volta tra la culla e la tomba. Un punto che segna un confine, il limite fra un prima e un dopo che scombinerà le carte, solleverà polvere e ti imporrà una scelta. Anche minima, ma irreversibile. Quel punto giunge per tanti di noi. Non tutti, solo gli eletti dalla catastrofe. E lì hai poco tempo per scegliere, tic toc, tic toc. Pillola rossa o pillola azzurra, come in Matrix? magari fosse stato così facile. Mi sarei senza dubbio rifugiata in un sonno eterno gestito da macchine e pompe. Che pillola azzurra sia. Invece no, mi toccava la rossa. Ancora una volta, la realtà come un pugno.

Era un’infermiera, esordì velocemente: «Signora, chiamo dalla sala operatoria, parlo con la mamma di Lucrezia?». Sì sì sì!, biascicai urlando. Ero di colpo una sciancata bavosa, lacrime e dislessia e incoerenza verbale. Mi chiedevano un monosillabo, pronunciarlo fu spostare l’Everest. Ero io, o forse no. Dipende, cosa volete dirmi? Pensateci bene, perché a seconda della risposta non sarò più la madre di Lucrezia. Di nessuno o nulla. A seconda di quello che ha da dirmi, potrei essere fiume di loto, salice marcio, Acheronte in piena e ossa e vermi che strisciano. Pensa bene, donna professionale e gentile, asettica, che stai per decidere come saranno i prossimi cinque secondi della mia sciupata esistenza. Perché se devi raccontare ciò che merita di essere taciuto, fermati ora. Chiudi la telefonata e io capirò e tutto sarà compiuto. Cercherò un piano più alto, finestre aperte e scorrevoli sui loro binari. Queste del salottino sono blindate, ci ho fatto subito caso. Ho controllato. Pensa dunque a cosa dirmi, se io sono davvero la madre di Lucrezia. Forse non lo sono già più, forse da ore la mia luce sta passeggiando nei Campi Elisi e sorride, mi cerca, tende la bianca manina verso il colle da cui sa che la mamma sta per arrivare. E allora, infermiera buona, finiamola qui, basta domande né inutili risposte. Se è il momento del congedo, salutami ora. Devo cercare una finestra. La mia bambina potrebbe non capire il ritardo. Cosa aspetta la mamma? Nei campi dei Romani, Cerere e Proserpina raccolgono insieme i melograni. Allora, sono io o forse no. Dunque?

«Signora, l’intervento è concluso, è andato bene . Lucrezia è ancora sedata e intubata, la stanno richiudendo. Tutto sotto controllo. Appena potete, scendete al Blocco operatorio. Il professore si sta lavando, poi verrà a parlare coi genitori». Bene . Quattro lettere. Le aveva pronunciate davvero o mi ero giocata anche l’udito? Cosa vuol dire, per una madre ridotta a uno stupido fagotto sciatto e bagnato di lacrime e saliva, questo stupido avverbio? e poi, era stata sincera? Una madre pazza ero ormai, preda di fantasmi. Però, quell’avverbio… Una banale parola di quattro lettere prende rapida il posto di tutta la filosofia la scienza la musica la sapienza del mondo. È parola sacra, che dissolve culti e profeti e sacri testi e religioni. Bene è ciò che cura e salva. La finestra che è possibile aprire forse non serve più. La madre non ne ha bisogno. Per ora. L’Ade può attendere. Per ora. Proserpina è al piano inferiore. Storpiata e patetica, mi eressi sulle stampelle rischiando di cadere rovinosamente. Bene era tutto ciò che serviva.

di Michela Musante


«L’Ospite»: racconto in cerca di editore


Mancano pochi giorni alla Pasqua del 2019. Lucrezia, una ragazzina brianzola di dodici anni, allegra e vitale, brillante scolara, innamorata del pattinaggio artistico su ghiaccio, pregusta la vacanza che trascorrerà con i genitori e il fratello gemello. Un rapporto di amore “ombelicale” la unisce in particolare alla madre, Michela Musante, docente di italiano e latino al liceo Marie Curie di Meda.

Improvvisamente, Lucrezia accusa i sintomi debilitanti di una rara malattia genetica, poi diagnosticata come morbo di Wilson, che le sta distruggendo il fegato. La situazione precipita. Si rende necessario un ricovero d’urgenza all’ospedale Papa Giovanni xxiii  di Bergamo, dove esiste un efficiente reparto di pediatria all’avanguardia. Dai complessi accertamenti clinici emerge che l’unica soluzione per la salvezza di Lucrezia consiste in un rischioso trapianto di fegato. Mamma Michela, incurante dei postumi in parte invalidanti di un’operazione ortopedica, vive in simbiosi con la figlia alcune giornate drammatiche. A scandirle sono notti insonni, visite angosciose in terapia intensiva e trepidanti consultazioni con medici e paramedici che rivelano non solo elevata professionalità ma anche umanità, solidarietà, empatia: le stesse doti delle quali daranno dimostrazione i loro colleghi impegnati, durante la prima ondata pandemica del 2020, nella lotta contro il covid-19.

Finalmente arriva, da uno sconosciuto donatore, un fegato la cui compatibilità permette l’innesto nel corpo della ragazzina. L’intervento, lungo e complicato, eseguito nel giorno del Venerdì santo sul crinale tra la vita e la morte, grazie alla maestria dell’équipe chirurgica si conclude con successo. La resilienza postoperatoria di Lucrezia, piccola “amazzone” non meno coraggiosa della mamma, desta stupore, sollievo, letizia. Si susseguono la dimissione dall’ospedale, il ritorno a casa, la convalescenza, le cure specialistiche, i frequenti controlli, una relativa stabilità a contrastare il timore strisciante di un eventuale rigetto. Ma l’essenziale è che Lucrezia ha superato, per un miracolo che potrebbe non essere solo della scienza medica, una prova estrema, sorretta da un amore materno al limite dell’eroismo.

E così la professoressa Musante sente incoercibile, quasi subito, la necessità di testimoniare la sua esperienza, la sua riconoscente ammirazione nei confronti di chi ha combattuto per lei e con lei la battaglia per la sopravvivenza della sua creatura. In nove mesi di scrittura ininterrotta, sul filo di una memoria al tempo stesso lucidamente razionale e visceralmente appassionata, “partorisce” un memoriale che intitola L’ospite  (con allusione all’organo salvifico trapiantato nell’addome della figlia). Partecipa quindi al premio internazionale di letteratura Città di Como, sezione inediti, e per unanime verdetto della giuria lo vince.

Oggi, quasi due anni dopo quella Pasqua di Risurrezione familiare, Musante aspira legittimamente a raggiungere il traguardo della pubblicazione integrale. Non per ambizione personale, per fatuo desiderio di notorietà. Tutt’altro: il suo obiettivo è piuttosto quello di riuscire a diffondere — testuali parole della stessa autrice — la lettura di «un racconto di disperazione ma anche di rinascita e fiducia, di gratitudine commossa verso il mondo della medicina e verso le famiglie dolenti e in lutto che accettano l’espianto degli organi dai loro cari deceduti», compiendo un gesto di grande generosità che «ci fa essere più vicini a Dio». Dal testo inedito de L’Ospite  viene  qui riprodotto un brano di straordinario impatto narrativo: le pagine in cui la tensione generata dall’attesa dell’esito dell’operazione di trapianto scatena nel cuore della madre una tempesta di pensieri, sentimenti, emozioni. Di paure e speranze.

di Marco Beck