La lezione di Martin Buber

Comunicare cioè incontrare
(e aprire la finestra)

Monda_8_x.jpg
08 febbraio 2021

L’8 febbraio del 1878 nasceva a Vienna il filosofo e pedagogista Martin Mordechai Buber. 133 anni non è proprio una ricorrenza “tonda” ma vale la pena ricordare questa figura oggi, visto che egli fu un pensatore che si è speso molto per la diffusione della cultura dell’incontro e del dialogo due cose di cui oggi il mondo contemporaneo ha estremo bisogno. La lezione di Buber viene in mente oggi anche perché getta una luce preziosa che può aiutare a comprendere la portata del denso Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali pubblicato lo scorso 24 gennaio.

In quel testo il Papa invita a «comunicare incontrando le persone dove e come sono», e sottolineava il tema della responsabilità di chi comunica: «Tutti siamo responsabili della comunicazione che facciamo (...). Tutti siamo chiamati a essere testimoni della verità: ad andare, vedere e condividere». È un verbo questo che ci pone di fronte alla responsabilità di essere comunicatori credenti e credibili, la condivisione infatti è diventata, almeno in teoria, la dimensione propria della comunicazione ai tempi della Rete e dei social, ma questo cosa vuol dire realmente? Ancora una volta: la vera condivisione nasce quando la comunicazione diventa momento di incontro e quindi di dialogo. Illuminanti su questo punto le parole di Martin Buber: «Non ho una dottrina. Indico soltanto qualcosa. Indico la realtà, e di essa indico ciò che non è stato visto o che è stato visto troppo poco. Prendo per mano chi mi ascolta e lo conduco a una finestra. Apro la finestra e indico fuori. Non ho una dottrina, ma conduco un dialogo».

Aprire la finestra e andare a vedere, insieme. Sono parole dedicate al tema dell’educazione ma che offrono un’indicazione preziosa anche per cercare e trovare l’approccio corretto di una comunicazione pienamente umana, che nasce dalla libertà e finisce per aumentarla, allargarla. Un approccio appassionato, curioso e al tempo stesso discreto perché rispettoso della libertà altrui, perché la comunicazione non ha a che fare con una dottrina da imporre calandola dall’alto ma appunto con la condivisione della scoperta, da fare insieme, della realtà e delle sue bellezze nascoste. Il bravo giornalista deve riporre le sue “lenti” e affacciarsi sulla finestra del mondo lasciandosi colpire dalla realtà senza la pretesa di rinchiuderla in schemi prefissati che spesso si rivelano gabbie ideologiche.

La curiosità, con tutti i rischi che essa comporta, può rivelarsi una buona maestra, se coincide con il gusto della scoperta e di osare, percorrendo sentieri poco battuti, ribaltando in modo paradossale le logiche che spesso s’impongono in modo monolitico anche all’interno del mondo della comunicazione. In fondo dal Vangelo scaturisce una forza che «dolcemente costringe» il cristiano a questo ribaltamento paradossale delle logiche del mondo. E questo si riverbera in ogni luogo, condizione di vita, dimensione esistenziale compreso l’ambito lavorativo. Allora per un comunicatore ispirato dal Vangelo, indicare, come suggerisce Buber, «ciò che ancora non è stato visto» è stato poco illuminato vuol dire anche dare voce a chi non ha voce, allargare gli orizzonti dei nostri sguardi spesso rassegnati, osare una speranza anche contro ogni speranza perché, come il Papa ha ricordato nel discorso alla Curia del 21 dicembre scorso: «Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire».

Nel Messaggio il Papa invita alla responsabilità di chi lavora nel campo della comunicazione ma prima ancora ricorda che una buona comunicazione passa attraverso la condivisione dell’esperienza («vieni e vedi») che non può non incarnarsi in un incontro, qualcosa che, in quanto tale, non è mai possibile programmare del tutto, ma resta sempre una sorpresa. Bisogna quindi essere pronti all’incontro, disponibili a lasciarsi incontrare dall’altro, aprire la finestra” come dice Buber e accogliere ciò che (di nuovo) entra. Allora tutto questo può essere racchiuso in un breve momento, in un gesto molto semplice, apparentemente banale, quotidiano, ma la verità è che accaduto qualcosa di grande, profondo, decisivo. Lo esprime molto bene sempre Martin Buber quando osserva che: «Di quando in quando si riesce ad esprimere gratitudine verso qualcuno, anche se non ha fatto nulla di particolare per noi. Perché mai? Per il fatto che, incontrandomi, mi ha incontrato veramente; per il fatto che ha aperto gli occhi e non mi ha scambiato con nessun altro; che ha aperto le orecchie e ha ascoltato fiducioso ciò che avevo da dirgli; per il fatto che mi ha aperto ciò a cui davvero parlavo: il suo cuore».

Ecco a cosa si riferiva Oscar Wilde quando affermava che «le cose vere della vita non si insegnano né si apprendono, ma si incontrano». Chiunque abbia vissuto un’esperienza educativa, sia come docente che come discente, ha sperimentato questa verità: l’educazione, come la comunicazione, non è la trasmissione di un contenuto ma l’incontro di due persone. Senza questa dimensione di prossimità e presenza, per cui si incontra l’altro dove egli sta, non può esserci vera comunicazione. Quando due persone si incontrano “veramente” dunque non ci sono solo loro due ma c'è un’apertura a qualcos’altro, a qualcun altro. Nel finale del suo breve e più famoso saggio, Il cammino dell’uomo, Martin Buber ricorda il vecchio detto rabbinico attribuito a Rabbi Mendel di Kozk che un giorno chiese ai suoi ospiti eruditi: «“Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta: “Dio abita dove lo si lascia entrare”». E aggiunge: «Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciare entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. (...) C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova”».

di Andrea Monda