Le mutilazioni genitali femminili

Una violazione
dei diritti umani che riguarda
milioni di bambine

A girl looks on inside a school building for displaced Yemenis who fled fighting between Huthi ...
06 febbraio 2021

«Purtroppo, i corpi delle donne sono sempre stati un campo di battaglia. Uno spazio di conquista e dominio, su cui esercitare controllo e di cui servirsi». Così la deputata Maria Noichl il 18 dicembre 2019 intervenne al dibattito del Parlamento europeo, riunito per definire risoluzioni e linee guida tese a sradicare in tutto il continente la pratica delle mutilazioni genitali femminili (mgf) e ad aiutare il resto del mondo nel contrasto a una forma di violenza dalle gravissime conseguenze.

Un appello che risuona con particolare forza oggi, in occasione della Giornata internazionale contro le mgf.

Scorrendo i numeri delle adolescenti in Uganda, delle bambine in Somalia, delle neonate in Nigeria, sottoposte a tale barbarie, si stenta a credere della portata, tuttora dilagante di una pratica che, sebbene internazionalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani, continua ad esistere: dall’Africa al Medio Oriente, dall’America latina al sud-est Asiatico, vittime della mgf sono giovani di ogni età, a seconda delle regioni del mondo in cui è perpetrata: circa 68 milioni di bambine nell’età dell’infanzia entro il 2030 rischiano di subire tale intervento, a cui ne vanno aggiunte altre 180 mila dei Paesi dell’Unione europea, in cui già vivono oltre 600 mila vittime di tale forma di violenza. «Dobbiamo essere la voce di tutte loro, come se ognuna fosse nostra sorella, madre o figlia» sono le parole con cui Frances Fitzgerald, nella stessa seduta del Parlamento europeo, annunciava le politiche, in particolare in materia di salute, asilo, istruzione, e di prevenzione, assunte a linee strategiche dai Paesi dell’Unione.

L’insostenibilità di una pratica non oltre giustificabile nel xxi secolo, e che non trova alcuna ragione d’essere in nessuna comunità del pianeta, si è riproposta all’attenzione mondiale con la candidatura al Premio Sacharov per la libertà di pensiero di cinque studentesse keniane (The Restorers), che hanno sviluppato un’applicazione sos di supporto per le vittime e le potenziali vittime della mgf: un’impresa che suona come un invito, un incoraggiamento ai propri coetanei a svolgere un ruolo attivo all’interno delle singole comunità: un’iniziativa dal profondo significato per il seguito sociale e culturale destinato a generare all’interno di quell’humus che ancora alimenta queste pratiche dannose.

Tuttavia, dal Rapporto Unfpa 2020, presentato e curato nella versione italiana da Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo; da 40 anni impegnati nel formare la popolazione sulle mgf e in progetti sul campo), emerge quanto la regressione, a livello planetario, delle condizioni delle bambine, determinata dalla pandemia, rischi di vanificare i passi compiuti. Nonostante, infatti, i dati disponibili non siano sufficienti a definire in che termini e con quali conseguenze la pandemia stia incidendo sulle pratiche abusive, la portata dell’impatto del covid-19 non può essere sottovaluta, a cominciare dai pesanti ritardi accumulati nell’attuazione delle azioni di contrasto ai matrimoni precoci e alle mgf. Il precipitare di situazioni economiche già fragili in uno stato di bisogno e dipendenza, correlato all’emergenza sanitaria, schiacciano ulteriormente le ragazze in posizioni ricattabili, esponendole a meccanismi negativi, compresi quelli che inducono pratiche dannose. Lo scenario che si verrebbe a creare nel caso in cui la pandemia si protraesse per due anni, vedrebbe, secondo le previsioni dei ricercatori, uno slittamento tale dei programmi di prevenzione delle mgf da non riuscire a risparmiare nel prossimo decennio a due milioni di piccole donne tale tortura.

Ad Unfpa sono già arrivati i fascicoli che documentano un netto incremento, in diverse comunità, delle mgf e di matrimoni precoci: il report confermerebbe lo studio condotto da Unfpa, Avenir Health, Johns Hopkins University (Usa) e Victoria University (Australia) che, nell'aprile 2020, già avvertiva della tendenza determinata dalla pandemia. Perché prevenzione e contrasto siano efficaci, è fondamentale parlare alle coscienze di uomini e donne delle tribù locali, così da rendere accettabile un cambio sociale e culturale collettivo: perché sia un passaggio rispettoso e non stigmatizzante, i progetti mirano a promuovere il pieno coinvolgimento delle comunità, possibile solo con una comunicazione corretta e un approccio non invasivo anche da parte dei mass media. Per comunicare e prevenire queste pratiche, occorre conoscerne origini e dinamiche, evitando di vittimizzare e discriminare nuovamente le donne costrette a convivere con le mgf.

In questa direzione, nell’ultimo decennio, in diverse regioni dell’Africa, le iniziative in campo hanno registrato significativi progressi: Aidos adotta, ad esempio, da anni il “building bridges”, ovvero un approccio teso a costruire veri e propri ponti interculturali per affrontare e prevenire, attraverso un dialogo aperto e continuo, il fenomeno. Tra questi, il progetto «Building bridges between Africa and Europe», realizzato nell’ambito del Programma congiunto Unfpa-Unicef per l’eliminazione delle mgf, prevede che le attività siano svolte sia nei Paesi di origine delle migranti, che in quelli di arrivo, così da rafforzare i legami tra comunità africane, giovani attiviste e professioniste (operanti nei settori di comunicazione, salute, assistenza psicosociale ecc.) impegnate in attività relative alle mgf in Europa e in Africa.

Gli obiettivi sono molto specifici, esattamente come i canali di intervento, tesi anche a migliorare la qualità dell’assistenza psicosessuale per donne e ragazze che hanno subito mgf in Africa e in Europa. In questo contesto è stato prodotto un cortometraggio sulle mgf a Ouagadougou (in Burkina Faso): qui l’Atelier di formazione Filmer Le Pont ha riunito quindici giovani (provenienti da Burkina Faso, Camerun, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Mali, Mauritania e Senegal) perché condividessero, lavorando insieme al progetto, le proprie esperienze e, ripercorrendo le rispettive storie, contribuissero al contrasto di questa forma gravemente lesiva di sopruso. Le giovani sono state interamente responsabili del progetto, seguendone scrittura, regia, produzione, sceneggiatura, soggetto e montaggio. Non si tratta di un caso isolato: similmente, a Kampala, in Uganda, Aidos ha organizzato un work-shop con una quindicina di giovani europee ed africane (provenienti da Egitto, Gambia, Germania, Kenya, Nigeria, Portogallo, Somalia, Uganda) al termine del quale sono nati il laboratorio Filming the Bridge e il video One Voice. Per le ragazze è stato uno spazio di condivisione in cui l’esperienza individuale è diventata strumento di supporto per altre giovani. Come racconta nel trailer Charity, la prima giovane della regione del Masai Mara in Kenya a dire no alle mgf nel suo villaggio.

di Silvia Camisasca