Il progetto di Casa Magnificat

Far fiorire l’umanità

Due donne liberate e assistite da suor Rita Giaretta
06 febbraio 2021

«Una fraternità che abbraccia il disagio e le ferite»: così suor Rita Giaretta, orsolina del Sacro Cuore di Maria, da venticinque anni in prima linea nella lotta alla tratta, ama definire l’ultimo suo sogno e progetto per donne in difficoltà. Si chiama Casa Magnificat, e stavolta è a Roma. Un appartamento messo a disposizione in comodato d’uso dalla parrocchia di San Gabriele dell’Addolorata, in zona Tuscolana - Don Bosco. Al momento lei e suor Assunta accolgono due donne. Un luogo protetto, una casa dove riconquistare libertà e autonomia e «far fiorire l’umanità».

Vicentina di origini, 64 anni, suor Rita è molto nota per il suo lavoro a Caserta, dove dal 1995 si prende cura delle donne di tutte le nazionalità, per sottrarle a ogni forma di schiavitù. Da allora sono state liberate oltre seicento donne e sono nati più di ottanta bambini. Libere prima di tutto dalla tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Ora l’attenzione della religiosa si è spostata su una forma di schiavitù più subdola e sommersa, ossia la violenza familiare, in drammatico aumento a causa delle restrizioni della pandemia, che costringono molte donne alla convivenza forzata con uomini «che scaricano su di loro rabbia repressa e aggressività, che le considerano loro proprietà. Stiamo scoprendo cosa accade tra le mura domestiche», confida a «L’Osservatore Romano» la religiosa che ora fa la spola tra Roma e Caserta e porta avanti i suoi progetti seguendo la politica dei piccoli passi e del lavoro di rete, lasciando che altri si appassionino alla sua visione e accorrano a sostegno: «Realtà ecclesiali, associazioni cattoliche o laiche, noi non facciamo differenze. Importante è che diventi un sogno comune e si agisca insieme». Nel frattempo fanno parte del coordinamento contro la tratta promosso dal Vicariato di Roma e dall’arcivescovo Gianpiero Palmieri, vicegerente.

«In questo periodo — spiega suor Rita Giaretta — ci preme essere un faro per proporre modelli diversi di relazione e aiutare le donne a non abbassare la testa di fronte al potere maschilista e patriarcale. Ci vuole una grande spinta di sensibilizzazione etica, bisogna formare i giovani nelle scuole. Perché crediamo di essere liberi invece siamo tutti condizionati dal “dio denaro” e da modelli consumistici che ci rendono schiavi e mercificano il corpo delle donne. Bisogna lavorare sul maschile: se c’è tanta offerta vuol dire che c’è tanta domanda di sesso a pagamento».

Parole e fatti vanno di pari passo nell’impegno di suor Rita e delle consorelle. Casa Rut e la cooperativa New Hope a Caserta sono un esempio concreto. La prima è una casa di accoglienza che prosegue le sue attività con altre tre suore, la seconda è una sartoria etnica dove lavorano le donne liberate dalla tratta, una cooperativa sociale nata nel maggio 2004, all’insegna della speranza di una vita diversa e nuova. New Hope ha un punto vendita a Caserta, con il sostegno della diocesi, e un sito molto ricco e funzionale (coop.newhope.it) dove si possono acquistare online t-shirt, mascherine, spille, astucci, scaldacolli, gonne, cravatte, borse, segnalibri, cinture. Creazioni realizzate soprattutto con tessuto wax, la tradizionale stoffa usata dalle donne africane, i cui disegni e decori stampati raccontano le storie di quelle culture. Ogni colore evoca uno stato d’animo: un abito molto colorato con motivi a spighe di mais può simboleggiare ricchezza e abbondanza, gli uccelli in volo sono invece di buon auspicio per chi si mette in viaggio.

Nella sartoria lavorano ora sette donne: africane, dell’est Europa, italiane. Questo permette di evitare l’assistenzialismo e di essere protagoniste della propria vita. Alcune di loro nel frattempo si sono sposate, hanno figli, sono indipendenti. Un progetto interculturale «che sta dando buoni frutti; si tratta di restituire speranza e dignità attraverso il lavoro». Suor Rita dice di sentirsi come una nonna per i bambini che sono nati dal progetto della cooperativa: «È stupendo invecchiare e vedere i nipoti che crescono, persone che hanno progetti comuni, che si sposano». In programma — fa parte del sogno — c’è anche l’apertura di un negozio New Hope a Roma.

Fra le tante storie di riscatto emerge quella di Joy, 23 anni, protagonista del libro di Mariapia Bonanate Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta (Edizioni San Paolo) pubblicato a fine gennaio, con la prefazione di Papa Francesco. Joy è originaria di Benin City, in Nigeria. Viene convinta da un’amica a partire per l’Italia con la promessa di un lavoro con il quale potrà mandare denaro alla sua famiglia e proseguire gli studi. Un tranello comune a tante vicende drammatiche di questo tipo. Dopo poche ore Joy precipita nel girone infernale del viaggio nel deserto e poi nei campi di detenzione libici, dove conosce orrori indescrivibili, fino alla traversata del Mediterraneo su un barcone. Salvata miracolosamente dal naufragio, scopre in Italia che il lavoro promesso è invece la strada. A Castel Volturno viene obbligata a prostituirsi con il ricatto del vudù e un debito di 35.000 euro, schiava di trafficanti senza pietà. Ma Joy non smarrisce mai la fiducia in Dio, quel Dio che la conduce all’incontro con le sue liberatrici e a una nuova vita a Caserta.

«Ora il nostro compito è aiutare altre donne a dire basta alla tratta», afferma oggi Joy, che sarà tra le voci di un incontro online organizzato da Talitha Kum nell’ambito delle iniziative per la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone che si celebra l’8 febbraio. «La testimonianza di Joy è un patrimonio dell’umanità», scrive Papa Francesco nella prefazione, definendo il libro “un dono” «a ogni donna e a ogni uomo che coltivi un’autentica passione per la salvaguardia della vita».

di Patrizia Caiffa