Viene la notte

Louis Dorigny, «Il sogno di Giacobbe» (XVII secolo)
05 febbraio 2021

«Adesso viene la notte». Secondo alcuni testimoni furono le parole pronunciate da Paolo vi , prima del suo ultimo Padre nostro, sulla soglia della morte. Anche per questo è stato un uomo e un credente fuori scala.

La notte è senza profili. Dona riposo, senso di compimento e pace, ma al contempo disorienta e impaurisce. Da qui il netto richiamo di Paolo che parla dei seguaci di Cristo come “figli della luce”, non appartenenti “alla notte” e “alle tenebre”. Eppure, l’apostolo avverte che «il giorno del Signore verrà come un ladro di notte». Si tratta di un giorno ben strano e singolare, poiché arriva di notte! Paolo riecheggia le parole di Gesù: come un ladro, in un’ora della notte sconosciuta al proprietario della casa, arriva il Figlio dell’uomo. Certo, è un invito alla vigilanza, ma al contempo parla della notte come momento propizio all’avvento di Cristo. La notte è tempo del pericolo, della paura, ma è anche il momento della rivelazione.

Il carattere ambivalente della notte (perciò la notte è notte!) vibra in tutte le sacre Scritture. Di notte Dio stringe il patto con Abramo, appare a Giacobbe, fa uscire Israele dall’Egitto, gli fa attraversare il mare, chiama Samuele ancora bambino, appare a Salomone, mostra profeti; di notte risuscita il suo Cristo, libera Pietro, manifesta a Paolo i suoi disegni. La notte rappresenta però anche il tempo della malvagità: quando Giuda uscì per tradire Gesù era notte; di notte Pietro e compagni non pescarono nulla; la notte è il momento migliore per oscenità, furti e omicidi. Eppure la gloria di Dio risplende sia nella solarità del giorno (Salmo 19, 3a) sia dal buio della notte (Salmo 19, 3b). Del resto la notte è insieme al giorno la prima creatura; anzi, nella scansione del tempo precede la luce diurna: «E fu sera e fu mattina: giorno primo». La sera viene prima del mattino, la notte prima del giorno. Ogni nuovo giorno inizia dalla sera. Il sabato ebraico comincia con l’oscurità del venerdì, la domenica con i vespri del giorno prima. Si entra nella festa per la porta della notte, passando tra gli stipiti del buio.

L’ebreo Elie Wiesel provò da ragazzino l’ingordigia della morte nei campi di concentramento nazisti, dove perse la mamma, la sorella, il papà, innumerevoli conoscenti e la speranza. Tra i suoi scritti, spicca il breve romanzo La notte (1958). Si racconta la lunga tenebra dove egli pianse la distruzione del tempio della sua famiglia, della sua città, del suo popolo, della sua fede, del suo Dio e dell’uomo. Wiesel non nega Dio, ma ne è profondamente deluso. Con Dio è arrabbiato e non vuole più saperne, nonostante continui a parlarne e, forse, Dio non smetta di parlargli; come quando fu costretto ad assistere all’impiccagione di un bambino che, pur pendendo dal patibolo, non riusciva a morire: «Dov’è dunque Dio? Eccolo: è lì, appeso a quella forca». A questo punto sarebbe fin troppo facile tirare una bella somma teologica dove tutti i conti tornano ancora, ma sinceramente non voglio attirarmi il tagliente rimprovero di Dio ai raffinati teologi amici di Giobbe (Giobbe, 42, 7-9). Preferisco lasciare questa faccenda a Dio e a Wiesel; è affar loro, come la notte che li avvolge; se la sbrighino loro. Wiesel continua a scrivere della notte, quasi che, nonostante tutto, in essa permanesse qualcosa da leggere. Cosa? Non si sa. Rimane certo che per l’ebreo Wiesel il sabato comincia con la notte.

Il peso della notte, la repulsione e l’attrazione che esercita, non cala solo sull’anima di Wiesel, ai ferri corti con Dio, ma perfino su chi continua a considerarlo suo amante e suo sposo. Santa Teresa di Gesù Bambino ne è un emblema. In una lettera inviata alla sorella Céline, in preda a una terribile crisi di fede, Teresa colloca la destinataria nella scena evangelica della tempesta sul lago. Teresa parla alla sorella con tono troppo esperto per non averne esperienza diretta. La situazione di Céline è resa con tinte fosche: è al buio, alla deriva, senza punti di riferimento, come in una notte che si rispetti. Situando nel vangelo il buio pesto provato dalla sorella, Teresa ne evidenzia la piena compatibilità con il vangelo stesso, nonostante di primo acchito parrebbe sintomo di mancanza di fede. La notte è segno fisiologico del credere, non la sua patologia. La soluzione sarebbe svegliare Gesù come fecero i discepoli: subito l’anima ne sarebbe consolata. Una donna, di notte, desidera la vicinanza del marito ed ecco che lui s’è girato dall’altra parte, voltandole le spalle. Facilissimo sentirsi abbandonata o immaginare chissà che tradimenti, non considerando che forse, più semplicemente, è stanco e bisognoso di riposo. Ecco la sfida: non dar ragione al senso di abbandono quando i tempi non coincidono, pur non comprendendone il motivo. Da qui l’invito di Teresa alla sorella: resta nella notte, non interromperla, svegliando lo sposo che ha tempi diversi da tuoi. La notte insegna che ogni tanto ci si trova, quasi sempre ci si cerca. Non trovarsi continuamente non significa essere abbandonati, ma collocati nella condizione di cercare di nuovo. A tentoni, nel buio della notte. La finezza intuitiva della Dottoressa della Chiesa risalta in particolare nell’interpretazione del sonno di Cristo. Come egli si addormentò profondamente durante la notte sul lago tempestoso, così ora riposa placidamente nel buio dell’anima di Céline (e di Teresa). Nella notte di un’anima Cristo dorme tranquillo, sentendosi a casa. Si sente a proprio agio nelle tenebre, nel loro caos confuso e indistinto; non le elimina, perché, semplicemente, non le teme. Del resto, fin dalla prima riga, le sacre Scritture segnalano che il buio è il semilavorato preferito di Dio, da lì trae cose mai viste. Tuttavia ciò non toglie niente allo smarrimento, alla confusione, alla tristezza, al senso di abbandono, alla tenebra e al nulla che ammicca in essi. E Teresa lo sa benissimo.

La notte piomba anche sull’Innominato, il terribile, losco faccendiere a cui ricorrono i potenti per gli affari sporchi; un lupo, il personaggio più scultoreo de I promessi sposi. Su incarico, aveva rapito Lucia e, imprigionatala nel proprio castello, si apprestava a consegnarla al mandante. Ma vista la ragazza accovacciata in angolo, fu assalito da una compassione sconosciuta. Poi venne la notte. L’Innominato sentì una voce di sfida: «Tu non dormirai». Al pensiero della malvagità commessa contro la ragazza, lo assalì una tempesta di terrore, rabbia, pentimento, ansia, tristezza, ondate di ricordi, senso di vuoto e desiderio di farla finita. L’arma del suicidio gli cadde di mano per la decisione di liberare Lucia l’indomani stesso. La mossa, in sé generosa, non era più sufficiente; ormai la notte era penetrata come un ladro, prendendo il sopravvento. Non si accontentava della mancia di moine caritatevoli, voleva tutto, reclamava l’Innominato: «E poi? Che farò domani, il resto della giornata? Che farò doman l’altro? Che farò dopo doman l’altro? E la notte? La notte che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! No, no, la notte!». Questi interrogativi non sono “problemi” che si concludono con la “soluzione”, ma “domande”: chi le pone deve “risolversi”, capovolgersi in esse, e non sarà più come prima. La notte e le sue domande porteranno quel delinquente all’incontro col cardinale Federigo Borromeo, verso la sua sincera, affettuosa conversione. Sebbene dotato della scaltrezza tipica di chi ruba, l’Innominato si scontrò con un ladro più bravo di lui, che l’aveva sorpreso in un’ora inaspettata, nel pieno della notte. La conversione dell’Innominato è un dono della notte. Si dice che la notte porta consiglio. E molto altro.

di Giovanni Cesare Pagazzi