Sulla crisi e la sua ambiguità
Il Coronavirus è l’ultimo anello rugginoso di una catena

Dentro una “policrisi”
con tanti nomi

Edvard Munch, «Due persone - i solitari» (1905)
05 febbraio 2021

Il nostro tempo patisce ormai una “policrisi”, per usare una parola importante di Edgar Morin, che si diffonde a metastasi in ogni settore dell’umano. L’ultimo nome di questa crisi terribile è la pandemia dentro cui siamo da quasi due anni. Per l’incrudirsi e l’infittirsi di una “crisi poliforme” che ci incalza dal “secolo breve”, cambiando solo nomi e colori, urge affrontarla e non solo con occhio preoccupato e severo, ma anche con atteggiamento fiducioso. La crisi, infatti, pretende di essere accostata nell’ottica del suo significato (significa distinguere, giudicare).

Andando di crisi in crisi


Certo, la crisi è crisi, è cosa di dolore e non vuole, sol per questo, una sua retorica, ma tuttavia s’impone come termine interno alla cultura della modernità, come suo fondamentale e radicale tormento, come richiesta permanente di domanda al suo interno, di “inter-esse”, di “inter-confronto” e di “inter-progetto”, di “inter-azione”. Imponendosi a noi, malgrado noi, la crisi mostra un fronte positivo e pro-positivo da non dimenticare: essa ha la capacità di farci incontrare con i nostri limiti,  imponendoci necessaria una “conversione di strada” o una rettifica alle sue direzioni.

Tutto questo implica che si sappiano decifrare i suoi segnali che, il più delle volte, richiedono di sottoporci a una seria  ”revisione di vita”, per  usare un’espressione cara all’ascetica. La crisi chiama a correzione, a creatività, a unirsi nel dialogo e nella collaborazione, in modo da arrivare a trovare le soluzioni più adatte e congrue dinanzi ai molti problemi che essa stessa pone e che chiedono  d’essere risolti in modo equo, buono e pienamente umano. Le crisi, fra l’altro, sono occasioni di vita importanti. Qui, forse, si può inserire quello che Papa Francesco ripete spesso: dalle crisi si esce o migliori o peggiori.

Le crisi vanno ascoltate


Un brillante pensatore francese — Michel Serres (1930-2019) — invitando a riflettere sul fenomeno generale della crisi, sostiene che, quando la si attraversa e la si vive, nessun ritorno indietro è possibile, mentre occorre inventare qualcosa di nuovo e avere il coraggio di cambiare pagina. Egli, osserva, inoltre, che ciò che colpisce è il constatare come, nonostante i grandi sconvolgimenti che hanno scosso l’intera famiglia umana e la sua tenda planetaria, le istituzioni stentano a cambiare o non cambiano affatto; perciò, egli sostiene che questo costituisca la vera crisi (cfr. Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, Torino, 2010). Pertanto, il prendere coscienza del dover cambiare, in concreto implica la disponibilità a revisionare il passato, cosa che comporta tante conoscenze, competenze, capacità interpretative e di azione per portare tale impresa a compimento (cfr. M. Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, Torino, 2018).

Di fronte alla cultura del disincanto


L’uomo di oggi è l’uomo della pura soggettività-individualità-solitudine che, per lo più, si rapporta agli altri in nome di interessi che sono regolamentati da inevitabili quanto mutevoli “regole del gioco”. L’uomo post-moderno sente cocentemente la delusione causata dai crolli delle grandi visioni organiche della storia (l’ultima di esse è quella marxista) e opta, di conseguenza, per un individualismo talora tanto esasperato da pagarlo a caro prezzo.

Restato senza la tutela dei pensieri forti, l’uomo della cultura policrisica sconta la sua orfananza con una solitudine-separatezza che lo porta a rapportarsi all’altro non in nome della “comune connaturalità” (ci si considerava membri interdipendenti nella società organica pre-moderna), né in ragione dellacomune cittadinanza” (ci si considerava concittadini nella società borghese-illuministica o del mondo) e neppure per la “comune compagine” (ci si considerava compagni nella società marxista), ma unicamente in termini d’interesse, senza vere preoccupazioni etiche, al massimo con la disposizione ad accettare, come si è detto, le regole del gioco: regole solo funzionali, efficienti ed interessate, comunque non etiche.

Di fronte all’eclisse della ragione


Lo si constata oggi in dimensioni estese: al posto della verità è subentrata l’efficienza, in luogo della ragionevolezza si va diffondendo l’irrazionale nelle forme più subdole e spesso apparentemente plausibili. L’eclissi della ragione va portando ad assumere atteggiamenti culturali e comportamenti di vita tendenti a ubbidire di fatto ai principi negativi dell’insignificanza e dell’assurdo. La crisi culturale non resta mai solo culturale in senso stretto: essa, è ben prevedibile del resto, pervade inesorabilmente i terreni continui dell’etica, del diritto, della politica, dell’economia e dell’educazione. Essa si fa oggi riconoscere, di fatto, per la paurosa caduta del senso della vita, per la desolante scomparsa di modelli educativi credibili, per il grave cedimento alle manie quantofreniche, numerolatriche ed esclusivamente burocratiche.

Un tempo pericoloso per l’umanesimo cristiano


Viviamo la presa di congedo dalle sicurezze, per navigare verso l’ignoto, “senza senso”, come ha profetizzato Nietzsche: «Il mondo vero è diventato favola» (Crepuscolo degli idoli, Rizzoli, Milano 1975, pagina 63). L’approccio all’uomo oggi, per solito, non riesce a rinvenire aspetti dell’uomo che attingano all’ambito del senso ed echeggino il Mistero: sono questi gli scenari inquietanti del post-umano che spaventano e richiedono attenzione alta da parte dei cristiani e delle Chiese.

Nella nostra epoca di umanitarismo secolarizzato e di antropologie chiuse alle soglie della trascendenza e del futuro ultimo, che non considerano la dimensione spirituale della vita e propongono miraggi di felicità e di benessere solo intra-mondani, ci si interroga semmai se si stia andando verso modelli di esistenza radicalmente nuovi. Siamo di fatto di fronte al progressivo affermarsi del “post-umanesimo” che scaturisce dai territori della robotica, della biologia, della sociologia, della psicologia, della pedagogia, della filosofia (cfr. I. Sanna [ed.], La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005).

Le risposte cristiane alla “policrisi”

Per indicare le risposte del cristianesimo alla pericolosa “policrisi” in cui si è avvitati, può essere bene adottata, nell’ottica di una possibile ricostruzione, l’icona della “casa dell’uomo”, di cui parlava Ernst Bloch. Costruire e ricostruire la “casa” dell’uomo, ossia la sua ragione di vita e l’orientamento ultimo della sua esistenza, è da sempre il compito cristiano. Premesso che non da soli i cristiani possono ricostruire quella casa e che essi debbono collaborare con tutti gli altri per farlo, essi anzitutto si appoggiano sulla parola di Gesù, che dice: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia» (Matteo, 7, 24).

Il cristianesimo ha da dire e da fare sulla “casa” dell’uomo, sulla sua costruzione, sul suo crollo e sulla sua ricostruzione: conosce sapienze maturate insieme ad altri uomini, con i quali condivide le gioie e le difficoltà del vivere insieme. Tuttavia, esso coltiva anche un intimo segreto di fede, che però confida ai suoi compagni di vita e palesa di mano in mano nei percorsi storici che compie: esso consiste nel credere che non si tratta solo di una questione teorica o pratico-teorica, ma anzitutto nell’incontrare il Redentore dell’uomo, il Cristo, che di quella casa (dell’uomo singolo, della famiglia umana, della chiesa e della “creazione”) è la “pietra angolare” (cfr. Efesini, 2, 20). Il cristianesimo ritiene nella fede che si è stabiliti sulla roccia quando si vive per mezzo di Cristo, in Cristo e in vista di lui.

La luce del vangelo sulla “policrisi”


Dinanzi a ogni crisi, anche a quella multidimensionale che ci preme da tempo addosso, serve porsi profundius anche dal punto di vista cristiano. Ci è chiesto di accostarsi con la luce del vangelo anche dentro le piaghe delle malattie e delle morti, degli smarrimenti esistenziali, delle povertà vecchie e nuove che incombono, della perdita del senso della vita e di incertezze di fede che non mancano. Fra l’altro, il vangelo è ben in grado di aiutare non solo nella cura dei guasti da essa procurati, ma anche nella decifrazione di essa e nella sapienza di saper vivere dentro di essa.

Comunque, è terribile che l’unità di misura dei nostri anni sia diventata proprio una “crisi” non decifrata in pieno, non vissuta con saggezza alta ma prevalentemente subita nei suoi aspetti devastanti: passiamo di crisi in crisi e talora da un cumulo di crisi all’aggiungersi di altri cumuli di crisi che finiscono per sommergerci e schiacciarci. Allora chiediamoci per l’ultima volta: è proprio necessario pensare la crisi? La risposta è sì, per non viverla in modo animalesco, non savio e non virtuoso.

In ottica esplicitamente cristiana, va detto che, per noi che viviamo su un interminabile ponte fra “secolo breve” e xxi secolo, è proprio necessario illuminare questo immenso ammasso di macerie, di spini, di rovi che ci martoriano anima e corpo per vedere di capirci almeno qualcosa, al lume di una qualche sapienza umana, ma anzitutto con la torcia luminosa della Parola di Dio e della sapienza cristiano-ecclesiale creatasi nell’arco di tanti secoli. Infine, non dimentichiamo che ogni crisi, a ben vedere, ci impone le buone prassi del dialogo, della corresponsabilità, della convivenza fraterna e solidale.

di Michele Giulio Masciarelli