«Sembrava bellezza» di Teresa Ciabatti

Una feroce onestà

L’immagine di copertina del libro
04 febbraio 2021

La protagonista di La più amata (Mondadori 2017) è cresciuta, o forse cresciuta non è, ma ha addosso un maggior carico d’anni, ha raggiunto la mezza età ed è una scrittrice affermata (sul viale del tramonto, dice lei), separata e con una figlia ventenne. Ora guarda indietro, verso l’adolescenza, con quella velenosa illuminante crudeltà alla quale Teresa Ciabatti ci ha abituato. Mostra l’instancabile gioco di potere e prestigio di ragazze e ragazzi: fra chi è ricco e chi lo è un po’ meno, fra chi sceglie gli abiti con l’adeguatezza che l’ambiente richiede e chi si muove a tentoni e strafà, fra chi è magra e lo è a ogni costo e della sua magrezza fa una bandiera che dimostra tutto, ricchezza e adeguatezza, bellezza e gioia di vivere, e chi la magrezza la insegue ma non riesce a conquistarla, continuamente sfora, risultando invisibile o risibile in primo luogo ai suoi occhi. Siamo alla fine degli anni Ottanta ai Parioli, ma il gioco non finisce lì.

Al centro della scena laggiù nel passato c’è una ragazza, Livia, magra, ricca e in più nobile, perfetta in ogni scelta, che sembra attraversare la vita nella pienezza della gloria, spezzando chi non è alla sua altezza e trattando con sufficienza persino il ragazzo con cui la divide, Massimo, alto biondo e sportivo, ammirato da tutte. A guardarla con invidia, come se fosse il fantasma della bellezza, altre due ragazze, Federica, la sorella più piccola di Livia, e la sua amica, la protagonista e narratrice della storia di Sembrava bellezza (Milano, Mondadori, 2021, pagine 239, euro 18). Più giovani e non abbastanza magre sfigurano di fronte a Livia, ma anche fra loro c’è chi vale di più e chi di meno, la nostra narratrice è più povera e non è nobile, tutte e due lo sanno e lo pesano. Già se solo raccontasse quelle adolescenze, maneggiando quel suo bisturi affilato capace di vanificare ogni giudizio perché troppo impegnato ad accanirsi contro chi lo impugna, la voce narrante, e Ciabatti dietro di lei, avrebbe fatto il suo.

Ma la voce che ci guida, su e giù tra passato e presente, ci racconta del tempo attuale della protagonista. Nel presente la scrittrice acclamata è anche magra e bella ma guarda al suo riscatto con il solito sguardo corrosivo, senza goderne. Separata dal marito, insegue rapporti che non durano, ha una figlia ventenne con la quale non funziona niente, dalla quale si sente allontanata e disprezzata come da un’amica privilegiata dell’adolescenza. Accanto a lei, legittima comprimaria, ritorna Federica, che la cerca per via della sua gloria ma le si accosta con un’ammirazione, una stima che sembra un eccesso mentre ha una sua inattendibile verità. Federica che ha un figlio, un marito, dei doveri verso la sorella Livia. Nello sguardo al presente, la scarnificazione, la riduzione all’osso è quella stessa che abbiamo visto agire nel racconto dell’adolescenza, la narratrice non si perdona niente, denuda non mostruosità epiche, minuzie, semplicemente l’impossibilità di aderire alla vita, un bisogno che non dà pace. C’è in questo disvelamento continuo qualcosa di ostinato, onesto, ingenuo, inerme.

Sembrava bellezza ha anche una trama solida che come le trame dei grandi romanzi indaga il tempo. Al centro della scena, torna Livia: come in un contrappasso, da forma di puro prestigio si è fatta creatura senza forma, ingombro di bisogno dallo sguardo inconsultamente incorrotto: un incidente che è il cuore della trama l’ha resa com’è, libera dal tempo: Sembrava bellezza è anche un libro sul tempo che restituisce vanità alla vanità.

Ma la profonda inconfondibile bellezza è nella lingua di Teresa Ciabatti, nel registro: acido, isterico, frivolo, capace di corrodere la più straziante tragedia parificandola al desiderio idiota, una voce che le permette di aderire al mondo senza mai giudicarlo da una gabbia/scranno protettiva. La protagonista e narratrice, che di nuovo felicemente si confonde con lei, accetta di aderire a un mondo in cui la sete più disperata si esprime attraverso l’ossessione di rifarsi, le tette, le labbra, la vita, e in cui persino la bontà risulta una posa, riproducibile, forzata. Quello che resta in mano – questo libro – è un oggetto morale, racconta dell’onestà feroce di una ricerca della verità, senza cattedre né manti, nella lingua impietosa della farsa.

di Carola Susani