L’arcivescovo di Beira sulla situazione in Mozambico dopo il ciclone Eloise

Tenere alta la testa
e camminare con la gente

  Tenere alta la testa  e camminare con la gente  QUO-028
04 febbraio 2021

Nemmeno la casa dell’arcivescovo di Beira si è salvata dalla furia dell’ennesimo ciclone che ha sconvolto il Mozambico centrale. Monsignor Claudio Dalla Zuanna, dehoniano della diocesi di Padova, nato in Argentina da una famiglia di origine vicentine, ha vissuto tra l’Italia e il Mozambico e con questo popolo condivide tutto, gioie e dolori. Perfino le devastazioni dell’ultimo ciclone, di nome Eloise, passato su Beira il 23 gennaio. Dopo un periodo come missionario fino al 2003 e incarichi importanti nella sua congregazione, vi è tornato nel 2012 come arcivescovo.

Ancora non era stata ultimata la ricostruzione della città in seguito al ciclone Idai del 2019, terribile, con novecento vittime e centinaia di migliaia di sfollati. Nel 2020 sono passati altri cicloni meno potenti. E ora di nuovo la paura del vento e della pioggia battente che scoperchia tetti, butta giù le abitazioni precarie e trasforma i quartieri più poveri in fiumi di fango.

«La mia casa, riabilitata con tanto impegno dai numerosi volontari, ha perso la parte centrale del tetto», racconta da Beira Dalla Zuanna. Le lamiere erano così ben fissate che il ciclone non ha avuto altra scelta che portarsi via anche il legname su cui si reggevano». Per fortuna le due estremità della casa sono rimaste intatte. Sono state già acquistate nuove lamiere e legname di qualità per rimpiazzare ciò che è volato via. «Altre opere della diocesi che erano state riabilitate dopo il ciclone del 2019 hanno avuto pochi danni, a parte una scuola e un salone parrocchiale».

L’arcivescovo si dice preoccupato perché questi eventi climatici estremi prima accadevano raramente, circa ogni dieci anni. «Ora si ripetono con grande frequenza. Per la città di Beira che ha aree sotto il livello del mare, questi fenomeni si sommano all’innalzamento del livello degli oceani, rendendo il futuro più incerto».

I cambiamenti del clima impattano con una violenza più distruttiva in zone così povere, esposte e con infrastrutture scarse. Beira è sotto il livello del mare e i barrios (quartieri) dove vive la gente meno abbiente prima erano delle risaie che piano piano si stanno riempiendo di case perché non ci sono altri posti dove vivere. «C’è poco che si possa fare», ragiona monsignor Dalla Zuanna. «Qualche casa può essere costruita con tecniche di resilienza, ma per la maggior parte è impossibile perché il terreno è basso e pantanoso e i costi sono alti per una popolazione che non ha le risorse neppure per una casetta convenzionale». L’alternativa sarebbe allontanarsi dalla città e dai rischi ma per gente che sopravvive grazie all’economia informale è un’utopia. Così chi può si attrezza con sacchi di sabbia sui tetti. Molti non hanno nemmeno i soldi per acquistarli.

Con il suo passaggio Eloise ha scoperchiato migliaia di case. Le abitazioni di argilla si sono sciolte in fango, gli arredi sono andati completamente distrutti. Si parla di sei persone morte e dodici feriti, 8.800 case distrutte, tra cui 26 centri sanitari. L’Unicef ha lanciato un appello ricordando che almeno 176.000 persone, compresi novantamila bambini, avranno bisogno di assistenza umanitaria. «Non ci resta che tenere alta la testa e camminare con la gente — afferma l’arcivescovo — nella fiducia che già una volta un popolo ha attraversato a piede asciutto un mare che gli impediva di avanzare verso la vita».

Sempre a Beira don Maurizio Bolzon, fidei donum della diocesi di Vicenza, che vive insieme a due confratelli una esperienza missionaria in un barrio tra la popolazione più povera, conferma: «Girare per i quartieri e vedere tante case distrutte, con la gente che cerca riparo: c’è tanta sofferenza. Vi assicuro che chi ha un cuore in questo momento se lo ritrova a pezzi. Vedere così tante case senza tetto o le abitazioni più fragili, di argilla, completamente sciolte, con le suppellettili bagnate in mezzo al fango, fa male al cuore». Le persone raccoglievano i pochi vestiti e beni che possedevano, li caricavano sulla testa e passavano attraverso i campi allagati con l’acqua al ginocchio o alla cintola, per cercare di andare a casa di parenti e amici.

Il giorno dopo il missionario ha celebrato messa in una chiesa senza tetto. «Abbiamo ringraziato il Signore perché siamo ancora vivi, con meno vittime rispetto al ciclone del 2019. Ma quando i presenti hanno raccontato i danni che hanno subito è stato molto doloroso». Poi è entrato nelle case per ascoltare le storie, rassicurare e infondere coraggio. «Questa gente è forte. Non ho mai visto popoli così forti. Quando chiedo: e se domani arrivasse un altro ciclone? I mozambicani rispondono: “Questa è casa nostra, ci rimboccheremo le maniche e ripartiremo di nuovo”. Detto da persone che hanno appena perso la casa sono parole forti, di grande resilienza. Sono capaci di rialzarsi sempre».

di Patrizia Caiffa