L’influenza del Recanatese sugli scrittori del secolo scorso

Leopardi e il Novecento

Elio Germano interpreta Leopardi nel film «Il giovane favoloso» (2014)
03 febbraio 2021

L’universo leopardiano, costituito di molteplici aspetti e innervato di svariati orizzonti, non cessa di fornire agli studiosi spunti sempre nuovi per approfondire una ricerca diretta a valorizzare ogni talento di un pensiero che investe l’uomo, la vita, la natura, il cosmo. Su tale vulcanico universo ha condotto una rigorosa indagine il xiv convegno internazionale di studi leopardiani tenutosi a Recanati dal 27 al 30 settembre 2017, i cui Atti sono ora stati raccolti in un prezioso volume — a cura di Maria Valeria Dominioni e Luca Chiurchiù — dal titolo Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza (Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2020, pagine 548, euro 78). Attraverso analisi panoramiche e focalizzazioni monografiche, i trentuno saggi che compongono il libro, suddivisi in quattro sezioni, illustrano l’eredità di Giacomo Leopardi nell’opera di personalità italiane e internazionali di primo piano, restituendo l’immagine di un maestro eccellente e illuminante.

Una robusta influenza il Recanatese la esercitò su Pirandello che, come osserva Valerio Camarotto, sin da giovanissimo aveva individuato in Leopardi «un interlocutore privilegiato». Lo testimonia la copiosa ricorrenza di immagini e temi leopardiani nelle prime prove poetiche dello scrittore siciliano, da Mal giocondo (1889) a Pasqua di Gea (1891), fino alle Elegie renane (1895). Come pure lo dimostrano, in quegli stessi anni, i riferimenti a Leopardi rintracciabili nell’epistolario pirandelliano, che rivelano un rapporto non estemporaneo e anzi «già carico — scrive Camarotto — di notevoli implicazioni intellettuali ed esistenziali, in nome di un precoce discepolato che sin dall’inizio mira ad evitare i rischi di un’imitazione stereotipata e banalizzate». È il caso, per esempio, di una lettera del 7 febbraio 1886 indirizzata da Palermo alla sorella Anna, nella quale si constata una netta presa di distanza dalle pose larmoyants di coloro che Pirandello definisce, con disprezzo, «i Leopardi in ribasso», colpevoli di diffondere «una nuvola di lamenti e di sospiri» che «aggrava l’aria e offende i polmoni». Ed è il caso, ancora, di un’epistola inviata ai familiari da Bonn il 13 marzo 1890 che mostra un Pirandello avverso agli schemi riduttivi del positivismo, in base ai quali, scrive, si finirebbe con il ricondurre «il grande genio» dell’autore dei Canti allo «stomaco guasto» e alla «cattiva digestione».

Non fu certo sordo alla voce di Leopardi l’allora ventiquattrenne Samuel Beckett, il quale nel 1930, quando cioè in Europa il nome del poeta era perlopiù ignoto, aveva già intuito la grandezza del Recanatese. In una lettera all’amico Thomas McGreevy, lo scrittore tracciava una mappa culturale europea i cui punti focali erano rappresentati da Leopardi, Schopenhauer e Proust. La lettura «intensiva» dei Canti condotta da Beckett — rileva Tommaso Gennaro — traspare dall’emersione di alcune citazioni e formule leopardiane (sempre riportate in italiano), con una spiccata predilezione per i versi di A se stesso, impiegati alla stregua di un puntello filosofico per chiarire uno snodo di un’argomentazione incentrata sul concetto di desiderio tra soddisfazione e cancellazione.

Cospicua — sottolinea Giuseppe Sandrini — fu l’eredità leopardiana nei prosatori della prima metà del Novecento. Carlo Bo definisce il Recanatese come l’uomo dell’«interrogazione disperata» e del «precipitare nel nulla», e indica nella Ginestra il punto da cui avrebbe dovuto ripartire, nel Novecento, «il poeta che poi non è mai venuto». Bo riprende, declinandolo in chiave esistenzialista, l’invito di Francesco De Sanctis nell’ultima pagina della Storia della letteratura italiana: «“esplorare il proprio petto” secondo il motto testamentario di Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna». Alla posizione d Bo è possibile affiancare quella di Italo Calvino che in Natura e storia del romanzo (1958) vede l’ingrediente essenziale del romanzo, «epica moderna», in un «rapporto dell’uomo con la natura e la storia» che sia «libero, non ideologico», insomma «un rapporto d’interrogazione». Non gli piace dunque «il cielo di Renzo Tramaglino» in viaggio verso l’Adda, ma il cielo «del pastore errate nell’Asia». Calvino pensa soprattutto al finale del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, in cui il navigatore enumera i sogni che lo scandaglio, le nuvole, il vento, gli uccelli hanno offerto alla sua speranza di avvistare la terraferma. Dunque — rileva Giuseppe Sandrini — torreggia la figura di Leopardi quale uomo di una tensione interrogativa che passa la fiaccola al Novecento: tanto nel campo della poesia quanto in quello della prosa, tanto più per il più sensibile dei critici cattolici quanto per il narratore einaudiano che aveva da poco pubblicato Il barone rampante. Successivamente, in una celebre lettera del 10 marzo 1984 Calvino avrebbe scritto che le Operette morali sono il libro da cui deriva tutto quello che scrivo».

Forti tracce leopardiane sono ravvisabili nella narrativa di Cesare Pavese. Basti pensare a Il mestiere di vivere che inserisce i pensieri dello Zibaldone tra gli esempi della «poiesis italiana» che «ama le grandi strutture fatte di piccoli capitoletti, di parti brevi e sugosissime». Tra i Dialoghi con Leucò ce n’è uno, La belva — nota sempre Giuseppe Sandrini — in cui «la storia mitica» dell’io si interseca con il tema del «selvaggio» in maniera particolarmente nitida. L’incontro di Endimione con Artemide, la divinità lunare, ricorda quello dell’Islandese con la Natura nelle Operette Morali. Tuttavia alla leopardiana «forma smisurata di donna», «di volto mezzo tra bello e terribile» si sostituisce la visione pavesiana della «dea vergine», ovvero «la cosa selvaggia», la natura intoccabile, che non ha nome, incarnata in «una magra ragazza selvatica». Le osservazioni di Pavese sul carattere simbolico del mito, che «non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture», possono valere per l’opera di Leopardi, capace di influenzare la narrativa di immaginazione del Novecento con la forza di un’inesauribile sorgente fantastica.

A dispetto dei tanti falsi dilemmi che hanno a lungo aduggiato la critica — filosofo o poeta? Razionalista o irrazionalista? Progressivo o antiprogressivo? — Leopardi, scrive Luigi Capitano, «non rimane catturabile in una semplice formula». Da un lato, infatti, il Recanatese ha professato la «filosofia dolorosa, ma vera» di Salomone e Omero, predicando la «vanità» universale dell’Ecclesiaste e dando voce a una galleria di personaggi nichilisti (Bruto, Teofrasto, Stratone, Tristano); dall’altro, rimane pur vero che egli ha ingaggiato un’acerrima battaglia contro i «rimedi» mistificanti del nichilismo platonico-cristiano, nonché contro i moderni progressi di una ragione «madre e cagione del nulla».

Inoltre, sottolinea Capitano, ben prima di Nietzsche, Leopardi ha visto scorrere il destino dell’Occidente con lo sguardo di un Giano bifronte, sicché la stessa svolta nichilista del suo pensiero si offre come uno specchio del più ampio rivolgimento che si registrerà nel Novecento.

di Gabriele Nicolò