Storie di guarigione dalla malattia mentale

Esercizi per allenarsi
alla speranza

Wassily Kandinsky, «No Title» (1923)
02 febbraio 2021

È vero che alcuni capitoli si rivolgano esclusivamente agli addetti ai lavori e, cioè, a chi, per professione, si relaziona a persone con disabilità psichica. Ed è ancora vero che, in base a tale premessa, il lettore non appartenente al settore di cui sopra incontri qualche difficoltà di comprensione, immergendosi in pagine pregne di termini tecnici, schemi, tabelle, dati, gergo professionale e bibliografia scientifica. Tuttavia La pratica quotidiana della speranza. Storie di guarigione (Milano, Mimesis, 2020, pagine 147, euro 14), a cura di Giuseppe Tibaldi, è un saggio da non sottovalutare, perché ruota attorno a un concetto che tutti — non solo quanti lavorano nelle strutture sanitarie o risultano esperti della materia — dovrebbero, sempre, tenere a mente: esiste una differenza «tra “avere la cosa Brutta” ed “essere la cosa Brutta”».

In altri termini, ciò che il volume vuole dire, anche tramite la precedente citazione di David Foster Wallace, è che «troppe volte [si dà] un’inutile definizione. Troppe volte, prima di volgere altrove il proprio sguardo distratto, [si esprime] la convinzione che non ci siano sopravvissuti e — se mai vi fossero — essi non abbiano una qualche possibilità di ricostruzione».

Vale per chiunque questo errato modo di parlare o, peggio, di pensare, riferendosi alle persone con disturbi psichici. Operatori della salute e gente comune, indistintamente e in virtù di un «retaggio del linguaggio manicomiale», continuano a parlare dello «schizofrenico» e non, invece, sottolineandone la probabile temporaneità della condizione, dell’uomo e della donna che, rispettivamente, stanno vivendo «un’esperienza con la schizofrenia» oppure, più semplicemente, un «periodo schizofrenico».

Le parole, insomma, sono importanti e, se usate in modo che non riflettano pregiudizi e indifferenza, possono, davvero, abbattere il «muro» dell’isolamento. Tibaldi — che è direttore della rete dei servizi della Salute mentale adulti dell’Area Nord nel Dipartimento di salute mentale di Modena, nonché membro del direttivo della Società italiana di epidemiologia psichiatrica e della rete dell’International Institute for Psychiatric Drug Withdrawal — ribadisce il messaggio, richiamando lo psicologo Gail Hornstein: «Essere ascoltati, essere creduti, disporre di un testimone empatico, disporre di almeno una persona che creda fermamente alla possibilità della tua “guarigione” [sono] il più potente antidoto al mito dell’inguaribilità».

Dunque, attraverso le diverse sezioni di cui La pratica quotidiana della speranza si compone (le testimonianze delle «sopravvissute» Patricia Deegan, Akiko Hart, Rachel Waddingham, Veronica P.; i contributi degli studiosi Tom Arnkil, Kaethe Weingarten e dello stesso Giuseppe Tibaldi), più le varie citazioni (tra cui quelle del più noto Oliver Sacks) che vi si rintracciano all’interno, emerge l’importanza del «dare sostanza concreta a pratiche terapeutiche orientate fortemente nella direzione delle aspettative favorevoli», del non «entrare nel gruppo degli “smontatori di meraviglie”» e, soprattutto, degli atteggiamenti strumentali a sviluppare le relazioni e ad «evitare che una persona venga ridotta alla (…) malattia».

Ecco che nelle vite di terapeuti, medici, operatori sociali, persone fragili e non soltanto — nella vita di tutti — dovrebbe giocare un ruolo primario la speranza. Lo ricorda, nella prefazione al libro, pure don Luigi Ciotti che, col suo Gruppo Abele, non smette di dare ascolto e attenzione a chi sta ai margini: «La sfida (…) è passare dall’apatia della sopravvivenza alla rinascita della passione di vita: passione di relazione, di ricerca, di libera costruzione di sé. (…) L’uso limitato e circoscritto della farmacologia, l’esercizio costante della prossimità nella relazione tra paziente e curanti, le modalità più idonee e incisive di colloquio nelle diverse situazioni, le opportunità d’impegnarsi in attività e progetti che restituiscano soddisfazioni personali (…) possono disegnare un percorso di ripresa e recupero in cui anche lo sguardo dell’altro non rimanda più solo alla diagnosi in cui molto spesso la condizione del “paziente” viene circoscritta (…). L’ostacolo più grande, infatti, in questo percorso di cura, è la perdita della speranza, la di-sperazione a cui si pensa di essere condannati per la vita che resta. La speranza è tensione di vita che si fa progetto».

E in questo progetto di rinascita della persona con disabilità psichica anche il lettore, privo di strumenti d’intervento diretto, può contribuire («Seguendo la metafora di Marcel, “se la luce deve ancora sorgere”, possiamo essere noi quelli che insieme, possono farla sorgere»).

In che modo? Riponendo nel cammino di ricostruzione dell’altro, da non abbandonare a quattro fredde mura, la sua più autentica fiducia, ma anche nel credere tenacemente — senza affibbiarvi le etichette di paziente psichiatrico o senza dar vita a relazioni contrassegnate da una falsa reciprocità — che non esistano «casi» senza speranza.

di Enrica Riera