La «Filosofia del dialogo interreligioso» di Roberto Celada Ballanti

Una discorde armonia

Un’opera dell’artista di strada francese Combo della serie «COEXIST’»
01 febbraio 2021

Un tema di enorme e pressante attualità, quello del dialogo tra le fedi, è affrontato da Roberto Celada Ballanti, professore ordinario di Filosofia della religione e di Filosofia del dialogo interreligioso presso l’Università di Genova, con una monografia che, seppur non estesa, è probabilmente la prima in Italia sotto questo titolo Filosofia del dialogo interreligioso (Brescia, Morcelliana, 2020, pagine 178, euro 14).

È certo un motivo di grande originalità riflettere sul dialogo tra le religioni non muovendo dall’interno di una fede o di una teologia, ma prendendo le mosse dalla filosofia, quasi a voler compiere — come l’autore scrive — un’operazione di «deterritorializzazione atopica», di dislocazione del tema dal dominio di una specifica religione o confessione a quella «terra di mezzo» rappresentata dalla grande tradizione filosofica, non a caso definita da Platone proprio dal topos del frammezzo, di quella zona intermedia che i Greci chiamavano metaxy, nel cui spazio umano-divino, divino-umano, abita, come si legge nel Simposio, la filosofia, figlia di Penia e di Poros.

In effetti, proprio l’intermedio del «tra», del metaxy, sembra essere uno dei fili conduttori del volume, articolato in due parti fondamentali, precedute da un prologo dove, tra mito e Logos, viene nominato il centro focale del libro: l’idea di «discorde armonia», la stessa che a partire da Eraclito intrama come un fiume carsico il pensiero occidentale e che bene è in grado di unire Oriente e Occidente.

Nell’introduzione l’autore rende ragione dell’urgenza estrema, nel tempo del nichilismo e della secolarizzazione, di una «filosofia del dialogo interreligioso». Urgenza che nasce dalla crisi radicale della convivenza che la nostra età conosce a ogni livello: geopolitico, interculturale, interreligioso.

Tale crisi, si legge in un testo che bene sintetizza ed esprime le tesi del lavoro, «è al fondo crisi di un Logos capace di connettere, colligere nel rispetto delle distinzioni». Il compito di una filosofia del dialogo interreligioso, così come viene configurato in questo studio, è innanzitutto quello di elaborare un universale non totalizzante, non proiettivo, che sempre diventa — basti considerare la storia dell’Occidente — dispositivo di esclusione, colonialismo camuffato, volontà di potenza. Tale, del resto, è il volto della globalizzazione. Occorre cercare un universale capace di ospitare le differenze e una figura del dialogo che sappia mettere in gioco tutte le potenzialità del prefisso di derivazione greca dia-. Il dia-logo, in quanto interruzione del mono-logo grazie all’irruzione-intrusione dell’altro, è sempre Logos spezzato, implica differenza e anche attraversamento. Abita quella terra di mezzo a cui allude Peter L. Berger, tra relativismo e fanatismo. È la terra di mezzo dove soggiorna la possibile discorde armonia tra le fedi, e che a tutte ricorda la comune distanza dal volto di Dio».

Alla ricerca di un tale universale non «imperialistico», non «proiettivo», non «coloniale», ma «desaturante», «plurale», «relazionale», Celada Ballanti si avventura in un affascinante percorso articolato, come lui stesso annuncia nell’introduzione, su due versanti: il primo, rivolto al passato, ossia alla tradizione dei dialoghi interreligiosi moderni, in cui vengono rinvenute tracce, indicazioni utili per il nostro tempo; e il secondo che, alla luce di quel traditum, si sforza di elaborare una proposta teorica per il presente.

Quanto alla prima prospettiva, l’autore ripercorre la sequenza di tre dialoghi interreligiosi d’immaginazione che attraversano la modernità: il De pace fidei di Niccolò Cusano (1453), di cui viene tracciato un denso profilo dal quale emerge il germe del paradigma interreligioso che sarà la modernità a elaborare pienamente, quindi il Colloquium Heptaplomeres di Jean Bodin (1596), e infine Nathan il Saggio di G.E. Lessing (1779), dramma teatrale illuminista cui Celada Ballanti aveva già dedicato attenzione nel suo precedente volume La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente (Edizioni di Storia e Letteratura, 2017).

Interessante è osservare, lungo la filiera di questi tre dialoghi interreligiosi d’invenzione — genere letterario che risale, a ben vedere, più indietro, alle origini dell’era cristiana, ossia al Dialogo con Trifone di Giustino, all’Octavius di Minucio Felice, per giungere al Dialogo tra un Filosofo, un Giudeo e un Cristiano di Abelardo e al Libro del Gentile e dei tre Savi di Raimondo Lullo —, che la modernità è attraversata da cima a fondo, dall’Umanesimo all’Illuminismo, dal problema del pluralismo religioso e dallo sforzo di elaborare una sintassi capace di ordinarlo, di governarlo, così da piegare l’inimicizia, la violenza, l’intolleranza, in armonia tra distinte fedi capaci di rispettarsi e riconoscersi.

Lungo questa traiettoria filosofico-interreligiosa l’autore intravede le grandi idee che il tempo toccatoci in sorte può impiegare in vista di una filosofia del dialogo all’altezza delle sfide del terzo millennio.

Il lungo saggio che compone la seconda parte del libro è, in realtà, in buona parte, una densa, fine meditazione sull’idea di dialogo, che viene scavata anzitutto alla luce dell’etimo che la sostanzia: quella di un Logos, ossia di un discorso, di una parola, segnato da quel prefisso di origine greca dia-, che ne impedisce la deriva monocentrica, monocratica, monologica, e che fa spazio, nel suo incavarsi, svuotarsi, che l’autore definisce «kenotico», «lacunare», «plurale», a quell’alterità, o a quell’altrove, che appartiene al nostro destino di esseri umani: sia quell’alterità l’altro uomo, l’altro volto, sia essa l’Altro per eccellenza, ossia Dio, di cui neppure la coscienza contemporanea, esperta di nichilismi e di morti di Dio, sa fare a meno.

L’approdo, di grande densità, non manca di sapore mistico, e viene declinato, nel finale, mediante la parola di uno dei massimi filosofi del Novecento, Paul Ricoeur.

Si tratta, afferma il grande pensatore francese, di scavare una botola in ogni religione, grazie a un processo ermeneutico che nessuno può imporre dall’esterno, verso quel «fondo mistico del fondamentale» che ogni religione reca in sé e che «entra in circolo dove nessuno domina».

Alla fine, così suona l’approdo di Celada Ballanti, ciò che unisce le religioni non sono dottrine, dogmi, culti, ma il Silenzio, il Non-detto, il Non-sapere: lo stesso, non a caso, che sta all’origine della mistica e della filosofia.

Una parola, assai evocativa, sigilla il finale: «sperdutezza», non lontana dalla Gelassenheit (abbandono, distacco) propria della grande tradizione mistica di Meister Eckhart.

di Marco Vannini