Sull’aumento dei suicidi tra i giovani

Non è solo covid

 Non è solo covid  QUO-025
01 febbraio 2021

L’allarme lanciato nei giorni scorsi dal professor Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è di quelli che non lasciano tranquilli: nell’ultimo anno i tentativi di suicidio e i casi di autolesionismo tra i giovani — registrato come accessi al Pronto soccorso di quell’ospedale — è aumentato in modo esponenziale. Un aumento, in occasione della seconda ondata del virus (ottobre – gennaio), del 30 per cento nel 90 per cento dei casi costituito da ragazzi tra i 12 e i 18 anni.

Indubbiamente la pandemia è stato un fenomeno scatenante. Il fatto che i ragazzi non siano potuti andare a scuola per tutti questi mesi, l’assenza del rapporto con i compagni, della routine scolastica spesso noiosa ma così necessaria — in dad è tutto attenuato — ad esempio, ha rappresentato la perdita di uno degli ultimi contesti vivibili di cui questa generazione dispone. Non si può però liquidare un dato così tragico — come ha invitato a fare anche il professor Vicari — attribuendone le cause solo a ragioni cliniche, a ragioni contingenti, o sperando in un ridimensionamento dei casi a fine pandemia.

Davanti ad un’impennata così repentina dei numeri, si è obbligati ad andare ancora più in profondità e su un terreno ben più vasto di indagine. Si tratta in tanti casi di disturbi di natura psichiatrica e la risposta per quelle situazioni ovviamente non può prescindere da opzioni di tipo medico, ma si ha anche l’impressione di assistere a quel fenomeno che caratterizza i disastri conseguenti allo spopolamento delle montagne: quando nessuno si prende più cura della montagna, quando tutte le piante vengono tagliate e con esse le loro radici, ogni pioggia, tanta o poca che sia, diventa causa di smottamenti e frane. Le tragedie accadono il più delle volte per questo, per la mancanza di cura. Le radici di quelle piante della montagna sono per l’uomo le relazioni che lo generano e che lo sostengono nelle prove che la vita gli pone dinnanzi.

Verrebbe così da dire che la sospensione della quotidianità dovuta al covid-19 non sia altro che l’onda che ritirandosi lascia in evidenza quei detriti che giacevano già sulla spiaggia. Ne emerge una fragilità della nostra società che viene da tempi più lontani rispetto all’inizio della diffusione del virus. Una fragilità dovuta alla perdita dei legami costitutivi.

Scrive Boris Pasternak ne Il Dottor Zivago, romanzo che parla di un’altra generazione che precipitò nel cuore di un’altra grande tempesta: «D’un colpo, ogni cosa è cambiata, il tono, l’aria, non si sa che pensare, chi ascoltare. Quasi che per tutta la vita ti avessero condotto per mano come una bambina e, a un tratto, ti avessero lasciato: impara a camminare da sola. E non c’è nessuno intorno. Allora ci si vorrebbe poter affidare all’essenziale, alla forza della vita o alla bellezza o alla verità, perché esse ti dirigano in modo sicuro e senza riserve più di quanto non avvenisse nella solita vita di sempre, ora tramontata e lontana».

Per scegliere l’essenziale, la bellezza, la verità occorre che quella mano che ti ha condotto fin qui, pur in modo differente, magari attraverso uno sguardo che non perde di vista quelli che ama, non ti lasci mai più. È questione di relazione. Di educazione. Di prendersi cura, anche con sacrificio. I ragazzi attendono qualcuno che accolga il loro sguardo. Gli adulti sono disposti al sacrificio che chiede questo amore?

di Alessandro Vergni